giovedì 3 novembre 2016
Su Sky Arte un documentario racconta i restauri, che durano tuttora, delle opere colpite dalla furia dell’Arno, dal Crocifisso di Cimabue all'Ultima cena di Vasari
All'interno dell'Opificio delle pietre dure di Firenze, dal documentario "Firenze 66 - Dopo l'alluvione" (foto David Andre Weiss)

All'interno dell'Opificio delle pietre dure di Firenze, dal documentario "Firenze 66 - Dopo l'alluvione" (foto David Andre Weiss)

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Ha ragione Swietlan Kraczyna – incisore polacco, formazione americana e vita fiorentina – quando descrive la sua esperienza dell’alluvione di Firenze. Spiega nel profondo i motivi per cui la piena di acqua, fango e nafta che travolse la città il 4 novembre di 50 anni fa ha suscitato una simile reazione in tutto il mondo. «La mia mano sinistra era dentro l’acqua che distruggeva tutta Firenze. Sentivo la potenza della natura. E mi ricordo che in quel momento pensavo che la mia storia personale e quella di Firenze coincidevano. E io vivevo questo momento storico insieme con la città».La voce di Kraczyna è una delle molte che punteggiano Firenze 66 - Dopo l’alluvione, documentario che Sky Arte manderà in onda domani in prima serata, dopo l’anteprima di oggi a Palazzo Vecchio nell’ambito delle celebrazioni ufficiali. Diretto dal fiorentino Enrico Pacciani, ricostruisce con filmati d’archivio e testimonianze (tra le altre quelle di Ornella Casazza, restauratrice del Crocifisso di Cimabue, le storiche dell’arte Mina Gregori e Kirsten Piacenti, il documentarista Mario Carbone) il montare dell’Arno il 3 novembre, lo straripamento del 4, l’intervento degli angeli del fango, giovani giunti da tutto il mondo allora in piena Guerra fredda. Ma, soprattutto, getta uno sguardo lungo per seguire la mobilitazione della cultura internazionale accorsa al capezzale della capitale del Rinascimento. Ad Arno rientrato nell’alveo, la conta delle opere d’arte danneggiate è da capogiro. Il Crocifisso di Cimabue, il simbolo dell’alluvione, dipinti di Botticelli, Paolo Uccello e Vasari sono solo il frammento più evidente del pack di quadri, carte, arredi stretti sotto un’atroce morsura di nafta e sterco: un conto approssimativo parla di 1.300.000 volumi della Biblioteca Nazionale e 1.500 opere d’arte, ma sono stime per difetto. «Tra poco riusciremo a pubblicare per la prima volta un censimento completo delle opere danneggiate» spiega ad “Avvenire” Marco Ciatti, direttore dell’Opificio delle pietre dure, anche lui tra i protagonisti del documentario. «Il numero dei dipinti è più alto del previsto: non 1.500 ma quasi il doppio».


L’alluvione diventa motore positivo. Scattano raccolte fondi internazionali (le racconta con aneddoti gustosi il figlio di Carlo Ludovico Ragghianti), giungono storici dell’arte ed esperti di restauro dal mondo anglosassone, si allestiscono laboratori nei palazzi fiorentini. È con l’alluvione che la pratica del restauro in Italia fa un balzo vertiginoso in avanti, costretta a individuare – in piena situazione di emergenza – metodi, teorie, tecniche innovative. A partire dal Cimabue, un intervento durato 10 anni. Un caso estremo ed emblematico, che ha finito paradossalmente per nascondere tutti gli altri: «Il Cimabue – spiega Ciatti – fu uno dei pochi casi di danno gravissimo. L’acqua entrò subito nella superficie priva di vernice: l’acqua entrò tra le crepature del colore sciogliendo il gesso. Nessuno avrebbe potuto fare niente. Fortunatamente in tutti gli altri dipinti la presenza della vernice ha salvato la superficie pittorica. Il problema era interno, nei legni gonfiati dall’acqua. Per fortuna avevamo grandi personaggi a quel tempo, che hanno salvato l’arte a Firenze, dal sovrintendente Ugo Procacci a Umberto Baldini, il fondatore dell’Opificio moderno. Quando l’acqua calò sapevano perfettamente cosa sarebbe successo e fecero velinare le opere. Il colore, per quanto staccato dal fondo, è rimasto fermo rispetto al movimento del legno che perdeva umidità. A distanza di anni possiamo reintervenire e risolidificare gli strati pittorici».

Ma, come racconta il documentario, calata la piena, anche l’onda emotiva con il tempo si spegne, e così anche i fondi. I restauri non sono mai stati conclusi. «Le opere più significative sono state restaurate – spiega Ciatti –. Il vero problema è che sono rimasti indietro le arti applicate, gli arredi lignei, i tessuti liturgici... Frutto dell’enormità del danno e di una storica disattenzione degli studi verso le arti cosiddette “minori” che si è riflessa, automaticamente, nel restauro. Eppure costituiscono il tessuto connettivo delle opere maggiori». L’Opificio ha continuato a restaurare opere dell’alluvione, facendo ciclicamente riemergere all’attenzione dell’opinione pubblica una realtà sommersa. Tra molte difficoltà. L’ultima impresa il recupero dell’Ultima cena del Vasari, raccontata nel documentario. «Dieci anni di lavoro, dal 2006 al 2016, per un’impresa considerata impossibile. E invece abbiamo recuperato tutte le parti di colore, senza interventi invasivi. È stato un restauro rivoluzionario nel concetto, basato sulla prevenzione. Il dipinto resterà fragile, ma abbiamo adottato espedienti per cui questo equilibrio gracile possa durare».


Questa è solo l’ultima in ordine di tempo delle svolte nel campo del restauro messe in moto dall’alluvione. C’è un pre e un post ’66, che il filmato cerca di fare emergere: «Con Firenze il restauro è stato costretto a rivedere i propri strumenti per far fronte alla gravità del danno. A partire da un più stretto rapporto con il mondo scientifico, prima sporadico e da allora irrinuncibile. Sono anche gli anni della commissione Franceschini, che redasse un rapporto sullo stato dei beni culturali, termine e concetto che nascono in quegli anni, la cui onda lunga portò alla creazione del ministero nel ’75. L’anno in cui l’Opificio ricevette un nuova forma, grazie a Baldini: non più un laboratorio locale ma un istituto nazionale di conservazione. Sotto ogni punto di vista, siamo figli dell’alluvione».

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