domenica 8 marzo 2009
COMMENTA E CONDIVIDI
La fine dello scorso anno ha visto convergere nelle Filippine due fenomeni apparentemente contrastanti. Il primo, una riduzione nel numero degli emigranti rientrati per le festività natalizie e un minore invio di rimesse e di doni dovuti alla crisi globale; il secondo – pur tracciando le somme di un anno record per l’emigrazione – la coscienza dell’aumento esponenziale dei figli di emigranti lasciati nel paese in condizioni di sostanziale abbandono, soprattutto affettivo. Quella filippina continua a confermarsi una migrazione non solo straordinaria nei numeri, ma anche in parte pioniera per le sue modalità e per le ricadute sul Paese d’origine. Nel 2008, questo fenomeno che sposta per quattro continenti un decimo dei quasi 90 milioni di filippini e interessa più o meno direttamente il 25 per cento della popolazione, si è anche confermato come un evento ormai consolidato ma, ancor più, incentivato dalla politica governativa e reso accessibile dalla conoscenza generalizzata dell’inglese. Molti elementi concorrono alla dipendenza materiale e psicologica dall’estero di tanti filippini, ma è soprattutto la mancanza di alternative che continua a rendere possibile e desiderabile la ricerca di un lavoro in un Paese straniero. Va sottolineato che i filippini, in Asia, sono un’eccezione per caratteristiche culturali, per storia coloniale e per antica cristianizzazione: mancano in buona parte del senso di inadeguatezza, di fallimento o vergogna che accompagna altre migrazioni e, al contrario, sono sostenuti dall’apprezzamento ufficiale che nei decenni ha creato il mito di un "eroe" mite, tenace, laborioso, parsimonioso e inevitabilmente "migrante". Non a caso, visto che le rimesse sono un salvagente prezioso per l’economia filippina in difficoltà nel mare della crisi mondiale. Tuttavia, risultato dell’emigrazione dall’arcipelago è anche una serie di problematiche sociali che vanno emergendo con sempre maggiore chiarezza e drammaticità. Al punto che, sottolinea l’Unicef, i costi sociali della migrazione per lavoro superano i benefici economici che ne derivano e le prime vittime sono i rapporti e le dinamiche familiari. Aggravate dal dato che l’emigrazione filippina è in misura crescente un’emigrazione femminile. Da anni la Chiesa, interessata pesantemente dalla partenza massiccia di donne, molto attive a livello parrocchiale ed educativo, mette in guardia contro questa tendenza, dalle sue conseguenze sociali. Come sottolineato durante la Conferenza internazionale su «Genere, migrazione e sviluppo» tenutasi a Manila lo scorso autunno, la partenza d tante madri ha portato, secondo le parole di Vanessa Tobin, vicedirettore dei programmi Unicef, a «indeterminatezza, degrado e cambiamenti nella cura e nell’educazione dei figli». D’altra parte sono molti gli studi di questi ultimi anni che sottolineano il pesante bilancio per l’arcipelago della femminilizzazione del fenomeno migratorio, che negli ultimi vent’anni si è trovato a dover soddisfare non tanto il bisogno di muratori, carpentieri, marinai, quanto la richiesta crescente di badanti, infermiere, balie e collaboratrici domestiche con la conoscenza dell’inglese a costituire titolo preferenziale. «La migrazione dovrebbe essere anzitutto una possibilità, una scelta. Per questo il governo filippino dovrebbe creare occasioni di lavoro e di benessere», ha sostenuto ancora a Manila la rappresentante Unicef. Ovvio, ma in attesa che questo succeda, le donne filippine hanno preso la strada dei loro mariti e fratelli. Stati Uniti, Europa, Medio Oriente: sono poche le regioni del Pianeta in cui madri dell’arcipelago non abbiano posto radici più o meno profonde, al punto da essere diventate un importante riferimento contro la disaffezione religiosa nelle nazioni cattoliche o con consistente presenza cattolica. Donne meno propense al ritorno, sempre più favorevoli – come pure i connazionali maschi – a una permanenza prolungata se non definitiva nei Paesi di lavoro e accoglienza, ove possibile tenendo con sé i propri figli o facendoli arrivare dall’arcipelago. Ma non tutti o, sempre più, una minoranza. Come spiegare altrimenti che da 3 a 6 milioni di bambini nelle Filippine crescono oggi nella mancanza di uno o di entrambi i genitori, all’estero per lavoro? Un dato di assoluta gravità, se confrontato – tanto per avere dei termini di paragone – con il milione dell’Indonesia e i 500mila della Thailandia. Uno studio diffuso di recente dall’Asia-Pacific Policy Center di Manila conferma che ad essere più colpiti sono i giovani tra 13 e 16 anni, tra i quali si registrano anche il maggior numero di abbandoni scolastici, casi di tossicodipendenza e gravidanze precoci. Ancora una volta si ripresenta il problema di un fenomeno solo in parte spontaneo. Incentivata da un trentennio come valvola di sfogo di tensioni sociali e povertà, oggi sempre più autoreferenziale, con ampi aspetti di individualismo, consumismo, insofferenza verso la tradizione e le regole sociali, disillusione… l’emigrazione filippina mantiene alta la speranza di benessere dei genitori e rende incerto il futuro dei loro figli.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: