mercoledì 24 agosto 2022
Nel romanzo "Ex figlio" il giornalista e scrittore ritrae una nazione di giovani che aspira alla libertà ma è costretta, come lui, a espatriare. E racconta di un popolo che subisce, ma si ribell
Un'immagine delle proteste in Bielorussia nel 2020

Un'immagine delle proteste in Bielorussia nel 2020 - Ansa

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Ogni tanto ci si aspetta che dalle pagine salti fuori Nina Bahinskaja, l’anziana donna divenuta un’icona delle proteste in Bielorussia del 2020. La si ricorda mentre, sventolando la bandiera biancorossa, resisteva in modo non violento alle cariche dei poliziotti. E in un certo senso gli eventi di due anni fa già sono in filigrana nelle pagine di Ex figlio di Saša Filipenko in uscita il 31 agosto (e/o, pagine 272 euro 18,00). Apparso a Mosca nel 2014 e boicottato in Bielorussia, il romanzo prefigura quanto sarebbe accaduto nel 2020, alla luce di quanto già accaduto dieci anni prima. L’autore nato a Minsk nel 1984, dal 2020 non vive più nel suo Paese per essersi opposto al regime di Aleksander Lukaschenko, padre-padrone della nazione dal 1994. Giornalista, sceneggiatore, presentatore televisivo e autore di programmi di satira, lo scrittore è già noto al pubblico italiano per Croci rosse, uscito lo scorso anno per lo stesso editore. E può contare sulla stima della conterranea Svetlana Aleksievic, Premio Nobel nel 2015, che lo reputa autore imprescindibile per «entrare nella testa della gioventù russa di oggi».

Il meccanismo narrativo che innesca la trama è dato dal coma in cui nel 1999 cade Francysk "Cysk" Lukic, 16enne studente di violoncello, dopo essere stato pressato dalla calca in una stazione della metropolitana dove i partecipanti a un concerto rock si sono ammassati a causa di un forte acquazzone. La sua condizione viene ritenuta irreversibile. Ad accudirlo resta la babulja El’vira Aleksandrovna, la nonna, altra figura centrale del romanzo (che non caso Filipenko dedica a sua nonna). E a trovarlo andranno in pochi: il fedele amico Stas, i genitori tedeschi che lo hanno 'adottato' anni prima come bambino di Chernobyl. Di rado va anche la madre. figura scialba, che alla fine sposerà e avrà un altro figlio dal primario dell’ospedale in cui Cysk è ricoverato. Un uomo cinico e compromesso con il regime, il quale dopo aver avuto con la nonna diverbi accesi sull’opportunità di tenere in vita un "vegetale", non esita a cavalcare la notorietà quando avviene il "miracolo". Dieci anni dopo l’incidente, infatti, in un breve lasso di giorni, la nonna muore e il giovane riapre gli occhi, riprendendosi velocemente. Quasi un metaforico passaggio di testimone tra la vecchia e la nuova Bielorussia. Ma al contrario di quanto accade nel fortunato film Goodbye Lenin, dove tutto sta cambiando e il figlio cerca di nascondere la caduta del Muro e del regime comunista alla madre uscita dal coma, Cysk si deve presto accorgere che in Bielorussia, mentre lui non era cosciente, poco è cambiato. La propaganda impera e la gente è passiva. Non ben accetto nella nuova casa della madre, cerca di farsi un’esistenza sua, vendendo sanitari. Eppure alla fine un nuovo risveglio, stavolta politico, avviene. Cysk partecipa alle proteste spontanee, brutalmente represse, contro i brogli in occasione delle elezioni del 2010, con decine di migliaia di persone in piazza. Infine, si riappropria della sua passione musicale (in verità da giovane perseguita un po’ svogliatamente). Ma dopo un attentato che gli porta via la speranza di un nuovo amore, se ne va in Germania. Mentre l’amico Stas si suicida.

È la conclusione amara di un romanzo che fa spesso uso dell’ironia (sia pure caustica). E dove l’autore non cita mai direttamente né Minsk e la Bielorussia, né i russi, chiamati semplicemente i «fratelloni». È invece intessuto di citazioni, rimandi e allusioni. Incomprensibili per un lettore non avvezzo a quella cultura e a quella storia, se Claudia Zonghetti, esperta traduttrice dal russo, lingua in cui Filipenko scrive, non fornisse una dettagliata nota di traduzione. Un vero e proprio sottotesto da cui apprendiamo, ad esempio, che Francysk Lukic è il nome di un protostampatore vissuto tra XV e XVI secolo, considerato il padre della lingua e della letteratura bielorussa. Molte note, poi, ragguagliano sulle vicende della storia del Paese, soprattutto nei cruciali anni della Seconda guerra mondiale. Infine c’è posto anche per uno spaccato della scena musicale rock e punk dell’Est Europa. Nella narrazione la cronaca spesso si mischia alla storia. L’incidente che manda Cysk in coma è ispirato a un fatto vero. Vengono rievocati molti attentati (attribuiti dal regime all’opposizione) e omicidi di giornalisti e dissidenti. Non mancano passaggi che illuminano anche l’attualità della vicina Ucraina. Come nella tirata geopolitica che Stas fa all’amico dormiente, spiegandogli che i «fratelloni» non lasceranno mai andare il loro territorio, necessario come cuscinetto per non sentire sul collo il fiato dell’Occidente. Ma su tutti i temi - lingua, bandiera, nazione, politica - spicca quello di una generazione senza padri. Cysk non ha mai conosciuto il suo. Disprezza il patrigno. E in una sorta di delirio allucinatorio arriva a ipotizzare che il suo vero padre possa essere un papavero del regime, addirittura il Presidente, anche se non gli somiglia. In fondo, spiega l’autore in un breve antefatto in causa propria, il libro «è un tentativo di capire perché la Bielorussia fosse piombata in un sonno letargico da cui non pareva avere alcuna intenzione di svegliarsi ». Ma anche una spiegazione del perché nel 2020 i bielorussi abbiano deciso di muoversi. Inoltre è «un’enciclopedia dei pretesti, un dizionario dei motivi» che li spingono «a lasciare la casa in cui sono nati ». Infine un racconto di come si diventa «ex figli, figli interrotti del proprio paese e delle proprie famiglie».

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