lunedì 18 novembre 2013
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Ci sono cose che diventano credibili nel farsi, pensarle troppo ne evidenzierebbe la difficile gestione, la sostanziale impraticabilità. Scrivere per Avvenire era una di queste. Dal settembre 2011 al luglio 2012 vi ho tenuto una rubrica che abbiamo titolato: “Dal crinale”, pubblicata nell’inserto domenicale. Riflessioni in libertà nel susseguirsi delle stagioni, un occhio agli accadimenti di cronaca: disgrazie e amenità, ma lo sguardo focalizzato su un orizzonte umano e culturale che va a scomparire: la civiltà del vivere sui monti.Tutto era cominciato con un incontro. Superando con garbo ed intelligenza una serie di difficoltà volte a scoraggiare qualsiasi intrusione, Lorenzo Fazzini arrivò per una intervista da inserire in: Nuovi cristiani d’Europa. Ne nacque una conoscenza rispettosa e curiosa, seguirono alcune serate di presentazione del libro, la realizzazione di un documentario per TV 2000, la consuetudine di un rapporto. Grazie a Lui mi è stata formulata la proposta e con modalità d’altri tempi: una stretta di mano tra galantuomini, sono diventato collaboratore di Avvenire; con reciproca soddisfazione e senza mai più incontrarci nemmeno al telefono. Ogni settimana vi ho dedicato almeno un pomeriggio, una notte e un’altra mezza giornata. Trovare di che scrivere, forma e sostanza, superando perplessità di vario genere si è rivelato un esercizio mentale, una disciplina del fare e dello stile di cui sono riconoscente. Se nel concreto dell’impegno il problema era riducibile a circa 4.000 battute per settimana un retropensiero già ipotizzava una possibile rielaborazione, uno sguardo d’insieme.È che le giornate si susseguono tumultuose e io non le trascorro seduto, né davanti a uno schermo con tastiera che non posseggo. Mille impegni, mille cose da fare, preoccupazioni e fatiche. Scrivevo per Avvenire e mi cresceva tra le mani, sotto gli occhi, nelle parole, la visione di un teatro di cavalli, barbarico e montano. Fino al maggio 2012 ogni mia energia, ogni sollecitazione lì ha trovato origine e fine. Un grumo residuale dell’infanzia, un seme scampato alla crescita sbocciava prepotente e bisognava correre per concimare, sarchiare, potare; proteggere e curare. Una gelata precoce o tardiva, una prolungata siccità, un ristagno di acque: mille sono i pericoli di una rigogliosa crescita e vanno affrontati con attenzione e premure.Questo che va a finire è stato un anno difficile, come camminare sul baratro e ogni sera ringraziare Dio per non essere precipitati e ogni mattino ricominciare senza perdere la speranza. Per non essere risucchiato dallo scoramento ho prima registrato la colonna sonora dell’opera equestre: Saga il canto dei Canti, poi ho ripreso in mano gli scritti di Avvenire. Qui subentra una seconda persona essenziale: il mio editor, Andrea Delmonte; a gennaio mi ha proposto di rielaborare il tutto tagliando, ricomponendo, poco aggiungendo in funzione di un titolo: Barbarico e seguendo una suddivisione in tre capitoli: Lodi, Vespri, Compieta. Non gli facevano difetto motivazioni coinvolgenti né mancava di fervore. Lo ringraziai, io già leggevo e rileggevo davanti al camino acceso togliendo e tagliando. Poi è finito l’inverno più brutto più lungo più angosciato della mia vita: 15 cavalli nella stalla, 2 puledri in arrivo, l’impossibilità di lavorarli. Con un ultimo sforzo emotivo economico energetico abbiamo rimesso in scena Saga opera equestre nella convinzione che prima di accettare e dichiarare il fallimento c’erano ancora diverse cose da fare e che sempre occorre far fronte alle avversità.Dopo l’ultimo spettacolo mi sono preso le cavalle con i puledri e Tre che, nato appena prima del mio viaggio in Mongolia, mi ha poi accompagnato in ogni traversia della vita adulta e siamo saliti ai pascoli alti. Per 4 mesi ho vissuto con loro. Dall’aurora a notte fonda con un piccolo branco di 7 cavalli bradi, a volte 8, anche 9, sui monti. Abbiamo visto le valli e i crinali riempirsi di turisti e villeggianti poi svuotarsi. Abbiamo assistito alle invasioni mattutine dei fungaioli e alle calate dei cacciatori. Ho presidiato la strada statale quando moto, macchine e traffico erano il pericolo maggiore e curato le ferite, le zoppie, i guai che conseguono a una vita libera e selvaggia. Ogni giorno una pena, ogni giorno una gioia, incontenibili. Attimi di pura grazia in albe e tramonti da incanto e impagabili visioni di nebbie e nuvole basse. Tante preghiere a lode, tante richieste di uno sguardo compassionevole dall’alto. Nella magnificenza della creazione, tra un colpo d’occhio panoramico al mare da un lato e, percepita più che vista, la pianura giù in fondo dall’altro, giornate a ricomporre il testo leggendo ad alta voce per trovare il giusto ritmo, limando scomponendo e amalgamando, aggiungendo il poco necessario. La suddivisione: Ora, Lege et Labora è diventata l’ordito e la trama è cresciuta sulla scansione di Lodi, Vespri, Compieta, viaggio in Italia, audaci imprese, viaggio a Roma.C’è una terza persona indispensabile in questa storia: Sergio delle Cese, il mio borbonico tramite col mondo. C’era quando nascevano i pezzi. Io scrivo a mano, correggo, riscrivo in bella copia poi, al telefono, detto a Lui che vive a Napoli nel caos urbano e da lì smista il tutto. Da anni: - vista mare / vista monti - è la frase che conclude le nostre comunicazioni. All’inizio mi rispediva via fax, che non posseggo, i testi per la correzione e ho abusato della banca, del bar, della parrocchia, di amici, ma vista la macchinosità dell’operazione ci siamo affidati per gli errori, le sviste da battitura a una attenta rilettura di sua madre, colgo l’occasione per ringraziarla. Lui ha mantenuto i contatti con Avvenire, Lui ha concordato con l’editor il contratto Mondadori senza importunarmi per non innervosirmi, poi mi ha presentato il risultato e sempre Lui mantiene i pochi necessari contatti col mondo lasciandomi ai monti, i cavalli, la casa, la Chiesa. Come ringraziarlo? Nel frattempo ho compiuto 60 anni, sto bene in salute, i cavalli anche; alla fine di ottobre siamo ridiscesi dai pascoli e ci prepariamo all’inverno che sta arrivando. La libera compagnia e il suo teatro, audace impresa, sono vivi. Scampati con difficoltà alla palude politico burocratica in cui hanno rischiato di affondare camminano ora su un vecchio tracciato, impervio e scosceso, solido. A rischio. Il libro mi racconta e mi rappresenta. È un testo sincero, condiviso con la creazione che mi avvolge e le creature che mi stanno intorno. L’avrei titolato: "montano italico cattolico romano" ma ho accettato il pensiero dell’editor, Barbarico ne risulta sunto e, visto il genere di civiltà che avanza, ne diventa sinonimo. La foto di copertina, scattata nei Chiostri benedettini di San Pietro in Reggio Emilia, è costume di scena del nostro teatro e mi auguro sia di buon auspicio per gli anni a venire.
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