martedì 1 marzo 2016
La «guerra civile» di Fenoglio
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Morto quarantenne nel 1963 delle infinite sigarette che avevano coperto la mancanza non solo di sostenitori ma di interlocutori che non fossero, nella sua Alba, gli amici del biliardo o del pallone elastico, si può dire che Beppe Fenoglio sia un autore postumo: tanto per l’opera emersa negli anni successivi alla scomparsa, quanto per la ricezione che ebbe in vita sua reticente, avara, ingenerosa. Nessuno avrebbe immaginato che il firmatario di tre magri volumi (due usciti nei «Gettoni» di Einaudi patrocinati da Elio Vittorini – I ventitre giorni della città di Alba, ’52, La malora, ’54 – l’altro, Primavera di bellezza, da Garzanti nel ’59) avesse lasciato nei cassetti di casa, e dell’azienda vinicola di cui era un semplice procuratore, le duemila pagine da cui sarebbero usciti negli anni seguenti due capolavori di stile diametrale e però accomunati da enormi problemi filologici: Una questione privata (’63), il racconto più scopertamente autobiografico quanto alla scelta di divenire resistente in armi, e il palinsesto corale che va sotto il nome de Il partigiano Johnny (’68). Dunque, colui che a lungo si era defilato ed era ritenuto un provinciale refrattario, uno scrittore locale e più o meno un epigono di Cesare Pavese, di colpo impattava il senso comune dividendo la sua immagine tra quella di un autore ruvidamente elegiaco e quella di un potente narratore epico: da una simile dicotomia, che in effetti squaderna una testualità complementare, nasce il Fenoglio che conosciamo e che leggiamo finalmente anche nelle scuole, forse il massimo prosatore del nostro secondo Novecento, ormai un classico consegnatoci dalle imprese filologico-critiche prima di Maria Corti, Maria Antonietta Grignani, Dante Isella, Gian Luigi Beccaria e poi da specialisti più giovani quali Mariarosa Bricchi, Luca Bufano e Gabriele Pedullà, che da ultimo ne ha riattraversato il percorso, come fosse quello di un ulisside resistenziale, producendo Il libro di Johnny( Einaudi 2015) con una introduzione che ne è anche la più organica summa biografico-critica. Ma qual è lo spazio intermedio tra il Fenoglio elegiaco di Una questione privata e quello epico del Partigiano? Si tratta di due ante complementari, senza possibile spazio intermedio, o c’è dell’altro che si interpone e ne contestualizza la vistosa disparità? A una simile domanda, che è già una precisa opzione interpretativa, risponde con chiarezza e dovizia analitica lo studio di Alessandro Tamburini, L’uomo al muro. Fenoglio e la guerra nei Ventitre giorni della città di Alba (Italic Pequod, pp. 260, euro 18). La monografia si incentra sul libro primordiale di Fenoglio, appunto i dodici racconti che costituiscono l’esordio dei Ventitre giorni, di cui l’autore vaglia sia la vicenda redazionale-editoriale sia la ricezione critica con una attenzione mirata in particolare ai temi della guerra e della fisionomia del resistente. È noto che il primo libretto di Fenoglio fu stroncato sulla stampa di sinistra e soprattutto comunista (Carlo Salinari arrivò a dirne, sull’Unità, come di una «cattiva azione ») ed è noto che a sinistra gli vennero a lungo preferiti L’Agnese va a morire di Renata Viganò, che è insomma la cantata popolare della lotta contro i nazifascisti, e il medesimo Sentiero dei nidi di ragnodi Italo Calvino, col suo sguardo dal basso e persino insolente, l’esordio di uno ex partigiano che pure di Fenoglio sarebbe stato tramite da Einaudi. Tuttavia Fenoglio aveva pensato a un altro titolo, Racconti della guerra civile, ma troppo in anticipo rispetto al grande libro di Claudio Pavone, del 1991, che ne avrebbe imposto la nozione scalzando quella, a lungo maggioritaria, della Resistenza intesa come guerra di liberazione nazionale: lo scrittore di Alba era peraltro un badogliano dei fazzoletti azzurri, un uomo allergico ai contenziosi ideologici, uno che al referendum del ’46 votò monarchia e in seguito non si sarebbe spinto più in là dei socialisti di Pietro Nenni. Eppure Fenoglio, per bocca di Johnny, era colui che aveva scritto lapidariamente «senza i morti, i loro e i nostri, nulla avrebbe senso».  Dovette comunque sembrare scandaloso o offensivo, allora, che qualcuno, come nei Ventitre giorni, rappresentasse i partigiani da individui in carne ed ossa, gravidi di umanità e dunque di peccati e di difetti, pari a uomini scagliati nel fuoco della lotta armata da una impellenza morale più che da una scelta ideologica o politica. Perciò Fenoglio con loro può permettersi la massima severità, uno sguardo che non tace niente e tanto meno dubbi e debolezze di chi ha scelto d’impeto la vita, o almeno una sopravvivenza dignitosa, rigettando la retorica mortuaria dei labari fascisti e delle croci uncinate. Come se per lui si dovesse decidere, e una volta per sempre, tra l’essere e il nulla. I racconti che compongono I ventitre giorni della città di Alba sono appunto quelli di un severo esistenzialista e insieme sono un repertorio di occasioni e di opzioni stilistiche da cui usciranno per diramazione le opere maggiori o ciò che ne rimane a noi lettori postumi.  Con limpidezza espositiva, Tamburini (e qui non vanno omesse né la lunga vicenda né la sua originalità di narratore, da Ultima sera dell’anno, 1988, a Quel che so di Adonai, 2010) coglie un universo polifonico, una gamma esaustiva che testimonia come le duemila pagine residue nei cassetti di Alba contenessero un diorama percettivo e, potenzialmente, i segni della totalità che è tipica dei classici. Del resto era stato a suo tempo aggredito per avere ritratto i partigiani di Alba sfilare malconci e nei modi di un carnevale sciamannato: ma è così che Beppe Fenoglio, nel suo sguardo vitreo e glaciale, vedeva frangersi la vita con le sue scelte dolorose, ultimative.
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