Non un vero e proprio successo, ma solamente una certa notorietà arride a Beppe Fenoglio da vivo. Solo successivamente - dopo la morte, avvenuta nel 1963 all’età di 41 anni -, man mano che vengono alla luce gli scritti inediti, viene sempre più compreso l’universo poetico sotteso alla ricerca letteraria dell’autore, che diventa così oggetto di un’attenzione critica crescente. Tappa fondamentale di questo processo è la pubblicazione, nel 1968, del romanzo Il partigiano Johnny. La complessa vicenda editoriale di questo testo è nota. Del romanzo sono state ritrovate due stesure incompiute, redatte probabilmente tra la fine degli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta. L’edizione del 1968, curata da Lorenzo Mondo, è frutto del rimaneggiamento dei due manoscritti, diversamente datati e stilisticamente eterogenei.
A questa edizione, tacciata di arbitrarietà, nel 1978 ne è seguita un’altra, allestita da Maria Corti, che ha pubblicato separatamente e integralmente le due redazioni, dando vita a un libro certamente più rigoroso dal punto di vista filologico, ma anche assai meno leggibile, soprattutto per quanto riguarda la trama e gli snodi narrativi. Una soluzione di compromesso può essere considerata la versione del romanzo pubblicata nel 1992 da Dante Isella, il quale ha seguito la stesura più antica per i primi venti capitoli e la seconda per gli ultimi diciannove.
Eppure del suo 'libro grosso' Fenoglio scriveva già nel 1957 a Italo Calvino, redattore all’Einaudi, la casa editrice presso la quale lo scrittore albese aveva esordito nel 1952 con il volume di racconti I ventitré giorni della città di Alba, pubblicato nella collana dei 'Gettoni', diretta da Elio Vittorini. Tuttavia negli uffici della casa editrice torinese il progetto di questo romanzo partigiano così particolare, condotto all’insegna di un’esigenza di verità e con una spregiudicatezza che a qualcuno poteva sembrare una sorta di dissacrazione dei valori civili della Resistenza, non trova accoglienza. Da qui la decisione di Fenoglio di passare alla casa editrice Garzanti, dove però le cose non andranno meglio. Ne scrive Elio Gioanola nel suo ultimo libro, Fenoglio. Il 'libro grosso' in frantumi ( Jaca Book. pp. 208, euro 18), che parla del «suo sfortunatissimo rapporto con il mondo editoriale, vera croce della sua esistenza, colpevole e presuntuosa stoltezza di chi, magari mediocre scrittore come Vittorini, o editore solo inteso alla moneta come Livio Garzanti, si è impancato a giudice e correttore di un talento letterario tanto fuori dalla loro portata». Sono parole molto dure (in particolare per il severo giudizio in merito all’attività editoriale, culturalmente benemerita, di Garzanti), che Gioanola argomenta ripercorrendo nei dettagli il travaglio editoriale attraversato da Fenoglio.
Incassato il rifiuto di Ei- naudi a seguito delle tensioni createsi con Vittorini per alcune divergenze di carattere ideologico ed estetico, Fenoglio non ottiene neanche da Garzanti l’approvazione del suo progetto romanzesco, che è costretto a ridimensionare. Così del 'libro grosso' viene pubblicata, vivente l’autore, soltanto la parte iniziale, col titolo Primavera di bellezza, volume che esce da Garzanti nel 1959. Contrastando l’ipotesi di una continuazione della vicenda narrata, l’editore convince Fenoglio a concludere il libro con la morte del protagonista durante uno scontro con i nazifasciti, determinando così l’impossibilità di offrire in un secondo momento un prosieguo del romanzo. Scrive Gioanola: «Senza i diktat dell’editore, che hanno sconvolto il progetto di Fenoglio privandolo della possibilità di servirsi ancora del nome di Johnny, il personaggio avrebbe continuato la sua militanza fino alla fine della guerra».
Il denso saggio di Elio Gioanola si sofferma, oltre che sulle questioni compositive ed editoriali, anche su altri aspetti della produzione fenogliana. Tra questi, il legame tra scrittura e Resistenza: per lo studioso non è stata la tematica partigiana a fare di Fenoglio uno scrittore, «perché sono soltanto le irresistibili pulsioni interiori a obbligare a esprimersi», ma certamente la partecipazione alla guerra di liberazione è stata «una formidabile sbrogliata di cervello per chi si aggirava un po’ sperduto tra tematiche di derivazione letteraria, traduzioni, tentativi teatrali senza nerbo espressivo, memorie private di debole consistenza». Non manca infine una riflessione sulla produzione incentrata sulle dure condizioni di vita dei contadini delle Langhe (si pensi al romanzo breve La malora, 1954), tema niente affatto separato dall’argomento resistenziale, nella misura in cui entrambi possono essere ricondotti al motivo di un’analoga, spietata lotta per la vita, con protagonisti che si confrontano con condizioni all’estremo della sopravvivenza, cercando in tutti i modi di vincere questo combattimento per sopravvivere e affermarsi.