martedì 28 novembre 2017
Parla il neo sovrintendente di Venezia, Ortombina: «Applicato a tutte le fondazioni porterebbe in platea un milione di persone in più L’opera non è qualcosa di museale, ma qualcosa di vivo»
“Un ballo in maschera” ha inaugurato la stagione del teatro veneziano

“Un ballo in maschera” ha inaugurato la stagione del teatro veneziano

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Il «modello Fenice», se applicato a tutte le fondazioni liriche italiane, «porterebbe ogni anno in Italia un milione di persone in più a teatro ». Cosa che, per Fortunato Ortombina, sarebbe «un forte segnale per la politica, per sottolineare ancora una volta che la cultura è servizio pubblico». Nel foyer del Teatro La Fenice il nuovo sovrintendente stringe molte mani. Le stesse che hanno applaudito con convinzione Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, titolo che con la bacchetta di Myung-Whun Chung ha inaugurato la nuova stagione lirica lagunare. «Primo di tredici titoli in cartellone, tre dei quali replicati più volte nel corso della stagione », racconta Ortombina, la cui nomina è stata firmata una settimana fa dal ministro Franceschini. «Sono direttore artistico dal 2007, ruolo che manterrò anche ora accanto a quello di sovrintendente – spiega –. In questi anni, durante i quali sono cresciuto con il teatro, ho potuto mettere a punto il “modello Fenice”: 150 recite l’anno e dieci milioni di incasso dalla biglietteria nel 2017, che vuol dire circa un terzo del bilancio che è di 33 milioni e mezzo di euro».

Le cifre, Ortombina, sono dunque importanti per convincere la politica che la cultura va sostenuta?

«Un tempo, quando ho iniziato a lavorare negli enti lirici, c’era una politica che formava una classe dirigente. Certo, c’era anche il paracadute per i dirigenti che, una volta finiti i soldi, andavano a Roma a battere cassa. Oggi non è più così, ci sono meno margini per sbagliare: i teatri sono diventati fondazioni e quindi di fatto aziende. È importante, poi, fare squadra tra teatri perché la musica in Italia è un sistema di vasi comunicanti che funziona se c’è osmosi».

Sino ad ora aveva solo la responsabilità artistica della Fenice, ora raccoglie il testimone di sovrintendente da Cristiano Chiarot chiamato a risollevare le sorti del Maggio musicale fiorentino.

«Chiarot lascia un teatro in ottimo stato. Abbiamo avuto 18 milioni di euro dal Fus come riconosci- mento della nostra alta produttività: su un bilancio di 33 milioni e mezzo è più del 50%. Non abbiamo mai avuto bisogno della legge Bray perché più che tagliare sul personale abbiamo sempre cercato di ottimizzare le risorse. I conti in ordine ci permettono di andare a cercare il capitale privato a testa alta. Far quadrare e i bilanci è necessario e per questo il lavoro artistico va sempre coniugato con aspetti economici, produttivi e industriali. Lo dico pensando a Verdi che era un musicista, ma anche un agricoltore e quindi un imprenditore. Se la Fenice in questi anni è andata così bene è perché la direzione artistica ha presentato alla sovrintendenza progetti realizzabili e sostenibili».

Una nomina nel segno della continuità, dunque?

« Continuità non significa accettare uno stato di cose e andare avanti così: la mia è una continuità nella ricerca estetica e produttiva. In questi anni La Fenice ha messo al sicuro i posti di lavoro, ha consolidato il rapporto con il pubblico e ha alzato notevolmente gli standard qualitativi, comunque ancora migliorabili. La mia agenda è piena di cose da fare » .

La prima?

«La nomina di un direttore musicale, perché un teatro deve identificarsi con una figura di riferimento, con un musicista che lavorando costantemente con orchestra e coro garantisca la ricerca continua dell’identità del suono. A Venezia c’è un terreno ideale per sperimentare: penso sia l’unica città dove si può inaugurare una stagione con un’opera contemporanea in prima assoluta come è capitato lo scorso anno con Acquagranda ».

Nel vostro cartellone c’è anche molto repertorio, i grandi titoli del melodramma che tornano periodicamente.

«Ma non è solo in funzione del turismo. Venezia ha 260mila abitanti e un pubblico che viene dall’estero: a tutti dobbiamo offrire il meglio, fedeli alla nostra vocazione, quella di aver sempre avuto un ruolo di scoperta di giovani talenti e di consolidamento e riproposizione del grande repertorio. Non è sempre detto che i titoli rari siano meglio di titoli collaudati, tutto dipende da come si fanno gli uni e gli altri».

Qual è la strada da percorrere?

«L’opera non è qualcosa di museale, ma qualcosa di vivo. I grandi autori sono stati tecnicamente compositori, ma di fatto profeti perché le loro opere parlano ancora a noi oggi. Dobbiamo riprenderli facendoli parlare al nostro presente e usando i mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione. Sempre partendo dalla musica e lì arrivando, mettendo al centro la figura del direttore d’orchestra».

Torniamo così al sue elenco di cose da fare: il direttore musicale. Potrebbe essere il maestro Chung, presenza costante delle ultime stagioni e che, dopo il successo di Ballo in maschera, il prossimo anno aprirà la stagione con Macbeth?

«Presto per fare annunci. Posso però dire che a volte i sogni diventano realtà».

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