domenica 20 dicembre 2015
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«La mia missione? Portare il talento italiano ad essere competitivo nel mondo. Non abbiamo nulla da invidiare agli altri, ma siamo rimasti un po’ indietro». Pierfrancesco Favino, uno degli attori italiani più popolari, oltreché esportabili (lo abbiamo visto in Rush di Ron Howard e Le Cronache di Narnia sino alla serie su Marco Polo di Netflix), a 46 anni vuole dedicarsi ai giovani. D’altronde la formazione ricevuta da Luca Ronconi e Orazio Costa all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma, ha consentito all’attore romano di passare agevolmente fra i caratteri più diversi, dal volto onesto del Gino Bartali tv e al bieco ceffo del Libanese del film Romanzo Criminale.  Così Favino ha accettato la direzione artistica della neonata Scuola di Alta Formazione e Mestiere dell’attore “L’Oltrarno” del Teatro della Toscana, un corso triennale gratuito per 13 giovani attori appena inagurato (www.loltrarno.teatrodellatoscana.it). Il neodirettore ci guida fra le spaziose sale prova situate nella Galleria Pio Fedi, già monastero di Santa Chiara, di Firenze, ristrutturata grazie a fondi pubblici e privati, accompagnato dall’amico Daniele Lago, imprenditore padovano del mobile, dal sindaco di Firenze Dario Nardella, Presidente della Fondazione Teatro della Toscana, e dal dg Marco Giorgetti. Favino, ora tocca a lei diventare maestro. Cosa trasmetterà ai giovani di quello che ha imparato? «Prima di tutto ho imparato dal grande Orazio Costa la passione, la dedizione e il senso del lavoro. Sono uno che ama fare le cose con una certa precisione. Quando si opera in ambito artistico si pensa che tutto nasca dal cielo, dall’intuizione artistica. Non è così. C’è tanto lavoro, c’è tanta tecnica, un impegno continuo che deve durare tutta la vita». Il panorama italiano però non è dei più rosei. «Gli allievi devono assumersi le loro responsabilità e sapere che col mestiere d’attore abbracciano il precariato. Le generazioni future, però, devono avere un sistema che funzioni. Nel nostro piccolo noi ci proviamo applicando all’insegnamento, un’idea di futuro, di cambiamento, di modernità. La scuola deve fare in modo che i ragazzi possano uscire con un bagaglio utile, in modo che fuori sappiano come organizzarsi». Per lei che lavora anche all’estero, il nostro mondo dello spettacolo è provinciale? «Per certi versi sì. Voglio che i miei ragazzi siano in grado di recitare Shakespeare, ma anche di fare un film col telefonino. Occorre stare al passo con i tempi. La nostra esperienza visiva oggi è completamente cambiata, la vita sta cambiando, non può più esserci una formazione ottocentesca. Non è più possibile rappresentare l’Italia all’estero con attori che sbiascicano l’inglese, occorre saperlo anche per farsi intervistare. È una questione di apertura mentale». Oggi molti giovani che vogliono entrare nel mondo dello spettacolo passano però dai talent show. «La formazione ha diritto di non essere spettacolarizzata, e i ragazzi hanno anche il diritto di sbagliare. Occorrono tempo e attenzione perché le caratteristiche individuali possano crescere. Invece se il ragazzo deve dimostrare subito le sue capacità, per paura di non essere adeguato imiterà un altro». Gli attori italiani come lei sono valorizzati dal nostro cinema? «C’è frustrazione nel rendersi conto di quanto potenziale c’è in questo Paese e quanto non venga cavalcato e sfruttato, per pigrizia e perché costa lavoro. L’educazione al lavoro è anche questo. Io mi sveglio tutte le mattine, che vada a lavorare o no, con l’idea di essere un’azienda che si occupa di un prodotto creativo. Esiste una generazione che si è mossa, come gli amici Stefano Accorsi, Beppe Fiorello ed altri. Non sono solo sono attori, ma anche autori del loro percorso. È una visione giusta, diversa, ma estremamente fattiva». A proposito di “fare”, sul suo sito ufficiale www.pierfrancescoavino.it c’è una sezione che si chiama “etica” dove dà spazio a diverse onlus benefiche. «Se attraverso la mia faccia riesco a dare voce a realtà che non la avrebbero, la considero una cosa positiva. Ho anche curato la regia per uno spot per la lotta alla distrofia muscolare. Per quello che riguarda invece la beneficenza personale, preferisco non parlarne». Fra teatro, cinema e tv, lei affronta sempre personaggi molto diversi fra loro, a volte anche contraddittori. «A me piace molto tentare di cambiare storia o personaggio, se penso all’onorevole corrotto e vizioso di Suburra e a Giorgio Ambrosoli siamo agli opposti. A proposito di etica, nel momento in cui abbraccia una storia l’attore deve mettersi da parte per andare alla scoperta di un altro essere umano». Su cosa sta lavorando ora? «Ho appena finito di girare la seconda serie di Marco Polo per Netflix e poi tanto teatro, curando anche adattamento e regia insieme a Paolo Sassanelli. Riprenderò la tournée di Servo per due , ispirato all’Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni, dal 4 gennaio. Il 15 aprile invece debutto alla Pergola di Firenze con La controra, un nuovo adattamento delle Tre sorelle di Cechov ambientato nel Sud Italia dei primi anni 50». Lei però riesce anche a conciliare il lavoro e i viaggi con una bella famiglia. «Io sono molto papà con le mie due bimbe, Greta di 9 anni e Lea di 3 (l’attore è sposato con l’attrice Anna Ferzetti, ndr). Penso che fossi papà ancora prima di diventarlo. Anche sul set dove sono Nicolò Polo, padre di Marco, mi sono sentito molto paterno nei confronti del vero protagonista, Lorenzo Richelmy. Evidentemente sono io che metto a disposizione questa idea di protezione che le persone sentono, forse posso piacere perché dò un’idea di solidità». Un’ultima domanda. Lei, romano, come sta vivendo il Giubileo della Misericordia? «Lo vivo da credente, quale sono, nella sua spiritualità. Mi colpisce la personalità di papa Francesco. Dopo i fatti di Parigi è stato uno dei pochi a parlare in una maniera molto chiara di cosa significhino gli armamenti, di chi ci guadagna dalle guerre. Sembrava che non se ne potesse parlare, lui ha avuto il coraggio, la forza e la neutralità per poterlo fare, e lo ha fatto».
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