sabato 8 settembre 2018
A Mantova il reporter inglese Gary Younge: «Un fenomeno sempre più diffuso anche per la facilità di procurarsi le armi. A morire sono spesso ragazzi di colore e di altre minoranze»
Il reporter inglese Gary Younge (foto Boato)

Il reporter inglese Gary Younge (foto Boato)

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Il giorno è stato scelto a caso. 23 novembre 2013, un lungo sabato che dalla costa orientale degli Stati Uniti avanza verso il Pacifico, lasciando dietro di sé non meno di dieci vittime: tutti minorenni, tutti uccisi da un’arma da fuoco. «Volutamente non ho tenuto conto dei suicidi», precisa Gary Younge, il reporter inglese che ha ricostruito la cronistoria di quelle 24 ore in Un altro giorno di morte in America (traduzione di Silvia Manzio, edizioni add, pagine 352, euro 18,00), drammatico reportage presentato al Festivaletteratura. «Quando ho intrapreso questo progetto, qualcuno mi ha chiesto se a spingermi fosse un sentimento di solidarietà verso gli afroamericani – racconta Younge, che è originario delle Barbados –. Ma il motivo non è questo. A preoccuparmi non è il colore della pelle, ma l’età delle vittime. Negli Stati Uniti è in corso una strage silenziosa di bambini, della quale nessuno sembra voglia rendersi conto. Certo, i massacri nelle scuole o nei cinema fanno notizia e suscitano commozione, ma per il resto domina la rassegnazione, come se il Paese fosse ormai immunizzato rispetto alla sciagura. Si ripete che il fenomeno è confinato nei ghetti neri, ma non è così. Chi lo sostiene sta soltanto cercando di rimuovere il problema ». Secondo le statistiche, ogni giorno in America sette minorenni muoiono per un colpo un’arma da fuoco. Tre di loro sono bianchi, tre neri, uno ispanico o di un’altra minoranza etnica. E una delle vittime, di norma, è di sesso femminile. Dai registri del 23 novembre del 2013 esce un quadro in parte differente. A essere uccisi sono dieci maschi, di età compresa fra i 9 e i 18 anni (in un caso, però, è una ragazza a premere il grilletto, sia pure in modo accidentale). Sette afroamericani, due ispanici, un bianco. Ma Younge è convinto che l’apparente eccezione non contraddica lo schema generale: «I neri sono comunque più numerosi che altrove – osserva – e la provenienza sociale ha un ruolo determinante. Non sempre si tratta di poveri, ma di sicuro non siamo mai in un contesto borghese. È un mondo di operai, di persone che lavorano per vivere e che, in generale, non dispongono di una particolare cultura. La casa in cui è morto Tyler Dunn, per esempio, dista chilometri e chilometri da una libreria. Nella zona, in compenso, c’è una gran scelta di negozi d’armi».

Quello dell’undicenne Tyler, bianco, è uno dei casi più inquietanti. Si colloca nella comunità di Marlette, in Michigan, dove la caccia è molto diffusa e i fucili sono letteralmente di casa. Nessuno sa esattamente in quali circostanze un coetaneo suo amico abbia sparato al bambinio, così come nessuno contesta la legittimità dell’arsenale domestico da cui proviene l’arma delitto. «È una sorta di assuefazione – insiste Younge –. Per la mentalità dominante contestare la diffusione indiscriminata delle armi sarebbe come prendersela con il traffico in caso di incidente stradale. Si può migliorare la sicurezza dei veicoli, gli in- croci possono essere resi meno pericolosi, ma non si pensa neppure lontanamente di rinunciare alle automobili. Per le armi è lo stesso. Anzi, il quadro è ulteriormente complicato dall’appello a un diritto costituzionale». Com’è noto, infatti, il Secondo Emendamento della Costituzione statunitense sancisce quale diritto inalienabile il possesso delle armi. Un provvedimento ormai anacronistico (al momento della promulgazione, nel tardo Settecento, le milizie volontarie supplivano all’assenza di un esercito regolare), ma che continua a essere evocato dalla potente lobby dei produttori di armi, la National Rifle Association, per avversare ogni provvediemento che miri a regolamentare l’accesso a pistole, fucili o addirittura mitragliatori. «Secondo alcuni in questo modo il cittadino conserverebbe la facoltà di difendersi contro tutto e contro tutti, perfino contro lo Stato in caso di derive totalitarie – afferma Younge –. Se questo fosse l’obiettivo, allora le armi andrebbero distribuite in massa nei quartieri del proletariato afroamericano, nei quali l’abuso di potere è una realtà quotidiana. Il mio è un ragionamento paradossale, sia chiaro. Eppure assurdità non troppo diverse vengono tranquillamente accettate dall’opinione pubblica».

Anche tra i parenti delle vittime domina il fatalismo. «Solo una delle madri che ho incontrato si è avvicinata a un’organizzazione che cerca di contrastare la diffusione delle armi – commenta Younge –. La speranza, a questo punto, può venire soltanto dalla cosiddetta Parkland Generation, il movimento spontaneo che nel marzo scorso ha riunito a Washington oltre mezzo milione di giovani dopo l’ennesima strage in una scuola. È un segnale incoraggiante, anche dal punto di vista culturale. All’origine della fascinazione americana per le armi c’è una concezione individualista della società: prima difendo la mia proprietà, la mia famiglia, i miei interessi e dopo, eventualmente, mi prendo cura degli altri. La frontiera, il mito di fondazione dgli Usa, continua a ripresentarsi sotto forme diverse, ma con logica immutata. Solo un deciso cambio di prospettiva può portare a un superamento di questa visione conflittuale. Ci saranno anche buone ragioni per avere paura, ma non si può permettere che sia la paura a governare».

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