venerdì 2 settembre 2016
Fancello e l’oro della terra
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Per molto tempo è calato il silenzio, il suo nome era noto quasi solo fra quelli che l’avevano conosciuto e magari avevano a casa propria un disegno o una scultura in ceramica. Molte di queste sue cose sono disperse, perduta ogni traccia o distrutte, e forse qualcuno sarà proprietario di una sua opera, trasmessa come eredità, senza sapere che possiede e chi ne fu l’artefice. Poi nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo trascorso, l’inizio di una riscoperta, con la mostra tenutasi nell’estate del 1988 nella sala consiliare del Comune di Dorgali, dove un secolo fa era nato, e poi a Cagliari alla Cittadella dei Musei.

L’anno prima Costantino Nivola allestendo lo spazio circostante il Palazzo del Parlamento regionale sardo con le proprie sculture, si ricordò dell’amico morto giovane in Albania nel 1941. L’amico era Salvatore Fancello, è di lui che parlo. Fancello nel 1937 aveva realizzato su un rotolo di carta per telescrivente (cosa certo rara per i tempi) un disegno alto circa trenta centimetri e lungo oltre sei metri, visione onirica di un eden irredento dove luci, colori, segni, piante, pietre, animali, uomini abitano un mondo senz’ombre, graffito e dipinto a tinte tenui (qualcosa che sembra discendere dal disegno rupestre). L’anno dopo lo regalò, come dono di nozze, a Costantino Nivola. Era il Disegno ininterrotto oggi esposto nella Sala Fancello del Municipio di Dorgali (donato dalla vedova di Nivola). Mezzo secolo dopo quel graffito è diventato un simbolo della Sardegna, che Nivola trasferì sulle pareti al piano terra della sede regionale. 

Venticinque anni, neanche compiuti, oggi sarebbero considerati davvero pochi (se pensiamo a quanti giovani se ne stanno in famiglia senza alcuna intenzione di schiodare e di farsi una vita loro). Erano pochi anche allora, quando Fancello morì, ma con una differenza. A Dorgali, negli anni Trenta, appena quindicenne eri già un uomo e avevi alle spalle una storia di lavoro come apprendista artigiano. A tredici anni Fancello si diploma a Dorgali alla scuola professionale; il suo talento grafico è così evidente che viene subito assunto come apprendista di laboratorio da Ciriaco Piras, che lavora cuoio e ceramica.

È l’undicesimo di dodici figli, e deve collaborare al sostentamento della famiglia. Apprende, sperimenta, entra per così dire nella fisica del materiale con cui dovrà poi realizzare le sue opere. A Nuoro, presentando un intaglio in legno, vince una borsa di studio che lo porterà, col conterraneo Giovanni Pintori, fino a Monza. Ha quattordici anni, quando lascia l’Isola.

Aveva già perso il padre e non fa tempo ad arrivare al Nord che viene a sapere della morte della madre. Grande tristezza, mitigata soltanto dall’affetto di quelli che incontra all’Isia (l’Istituto Superiore per le Industrie artistiche di Monza), che ne riconoscono il talento; è l’inizio di una vita d’artista breve e intensa. Quest’anno è caduto il centenario della nascita di Fancello e pochi, fuori dall’Isola, sembrano essersene accorti. Forse per il falso pregiudizio che s’impone quando un artista scompare prematuramente: avrebbe potuto essere questo o quello... ah, se fosse vissuto di più chissà quanto poteva dare... 

 Uno schema che si avverte ancora nell’incipit alle righe che Giulio Carlo Argan scrisse come prefazione alla monografia edita da Ilisso per la mostra dell’88: «Salvatore Fancello è morto così giovane che non è neppur possibile congetturare quale sarebbe stato il suo futuro d’artista, gli mancò anche il tempo d’un ponderato esordio... Forse sarebbe diventato un grande scultore, ma certamente fu un ragazzo pieno di talento, di fantasia, d’entusiasmo, di bontà e gentilezza d’animo. Peccato». Com’è che questo tono di voce non mi torna? Com’è che non provo davanti alle opere di Fancello alcun rammarico per il di più che non ha potuto dare? Se fosse vissuto a lungo, avrebbe potuto diventare internazionale (nella fama, almeno), come accadde al fratello putativo Costantino Nivola, a cui giovò senza dubbio l’esodo in America.

Sono anch’io convinto che Fancello ci avrebbe dato altri capolavori, avrebbe cambiato maniera, dimensione, forma, materie, avrebbe cioè espresso appieno la sua indole sperimentale che non riguardava la tecnica, ovvero il modo di manipolare le materie, ma l’immaginazione: come rendere la sua fantasia libera forzando i limiti delle materie, la loro duttilità, cercando quell’eccezione che conferma la regola e in un certo senso la crea. Fancello era un genio performativo e forse ancor più a lui che a Nivola si adatta l’appellativo di genius loci. Fantasia libera, e agreste, fantasia pastorale, di chi sotto il cielo aperto immagina mondi che si formano e si disfano come le nubi portate dal vento, come i riflessi di quel medesimo cielo sulla superficie del mare; agreste, la fantasia, perché magica come soltanto la terra più aspra può generare.

Nel Disegno ininterrotto i muri di pietra che corrono ovunque in queste terre, sono il testimone di una cultura che lotta con la natura. Ma nel segno di Fancello si avverte quella leggerezza trasognata che si ritrova anche in certe opere di Dufy. Pur emigrando al Nord Fancello resta radicato nella sua terra-madre, terra-memoria, terraformaggio e terra-pane (disse Martini che la propria piccola scultura in terracotta nasceva dal ricordo delle forme dei dolci realizzati con gli stampini dal padre fornaio per le feste di paese); la madre-terra di Fancello non è, però, soltanto grembo ancestrale, è anzitutto realtà storica e antropologica. E quei muri di pietra che corrono ovunque nelle strade e nelle vie interne Qui e sopra due sculture dal «Bestiario» di Fancello del paesaggio dorgalese erano, prima ancora che muri di contenimento, muri di protezione delle greggi (limite per gli animali da pascolo e difesa dall’aggressione degli animali predatori). Un simbolo dunque di questa terra di pastori e agricoltori.

La pietra è l’elemento base dell’architettura di questi luoghi fin dagli insediamenti nuragici, come quello di Serra Orrios a pochi chilometri da Dorgali. Quel segno nell’opera di Fancello allora è molto di più di un elemento locale e rappresentativo, è memoria dal valore antropologico, storico e, direi, perfino politico. Più che la fantasia al potere, il potere etico della fantasia. E se a Cagliari hanno trasferito sul cemento i suoi graffiti, ecco che Dorgali dovrebbe portare nella Sala Consiliare l’originale del Disegno ininterrotto, esposto a emiciclo, come visione del bene comune. 

Approdato a Cala Gonone (dopo dieci ore di viaggio) per un breve tour sardo nei luoghi di Salvatore Fancello, la stanchezza si è volatilizzata appena ho visto nella Scuola elementare le ceramiche che hanno creato la leggenda Fancello. Pensare che questa bellissima mostra che ha chiuso i battenti domenica scorsa sulla scuola ceramica di Dorgali, con un catalogo non meno bello edito da Ilisso, possa essere stata allestita in modo impeccabile in un edificio scolastico è già straordinario, ma ancor più straordinario era poter toccare con mano il prima e il dopo della meteora Fancello; i precursori, Francesco Ciusa e Ciriaco Piras (una gigantografia mostra la sua bottega con sette ragazzini intenti a decorare le ceramiche), che dall’artigianato spostano gradualmente la ceramica verso quel versante artistico da cui fiorirà Fancello, sperimentatore a Monza, Padova e Albisola.

Il suo lavoro era cominciato con Simeone Lai, nipote di Piras, e pochi anni dopo, nel 1935, vediamo che dalla loro collaborazione uscirà la linea griffata “Creazioni Fancello” con un’eco, grazie a Gio Ponti, sulle copertine di “Domus”. Fancello fra Monza e Milano si fece intendere: fino al ’34 all’Isia, dove aveva incontrato Nivola ed era stato allievo di Martini e Marini e di Ugo Zovetti; ma poi nell’entourage di Giuseppe Pagano e “Casabella” realizzò graffiti e ceramiche per la Triennale.

E fu sempre Pagano a commissionargli il programma decorativo per la Sala mensa della Bocconi il cui cuore è un pannello celebrativo in terracotta parzialmente smaltata, modellato nel 1939 ad Albisola e installato nel 1941 grazie ai soldi che lo stesso Fancello spedì dal fronte dove poco dopo sarebbe morto.

Se Milano e Monza sembrano essersi dimenticate di Fancello in questo anniversario, certo, una mostra come quella organizzata dallo splendido Museo Nivola di Orani – a cura di Giuliana Altea e Antonella Camarda, allestimento di Alessandro Floris – recupera le suggestioni di quel rapporto col Nord evocando lo stile anni Trenta leggero e razionale nel quale Fancello portò le sue «forme inquiete». Ma è giunto il momento di rendere a Fancello ciò che è suo, riconoscendone il ruolo di innovatore accanto a figure come Fontana, Broggini, Leoncillo. E non è detto che col tempo tante cose disperse non possano riemergere alla luce contribuendo a darci un quadro ancor più preciso della sua importanza artistica.

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