martedì 2 dicembre 2014
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Fissi dallo schermo Andrea Pirlo e viene in mente il giudizio caustico che Sergio Leone riservò all’attore, ancora acerbo, Clint Eastwood: «Aveva solo due espressioni, con il cappello e senza cappello». La fisiognomica di Pirlo prevede più o meno l’antica posa duale del grande Clint: «Con la barba o senza barba». Però dategli un pallone tra i piedi e vedrete cosa ci può fare. Nel derby della Mole n°189 domenica c’è stata la sua zampata vincente, stoccata all’ultimo secondo di una sfida fradicia di significati, ancor prima che di pioggia, vinta naturalmente dalla sua Juventus. Possiamo discutere per anni sull’evoluzione (o involuzione del calcio moderno), ma alla fine la differenza la fa sempre il colpo del campione. Specie quando davanti hai un Toro generoso che carica a testa bassa e che più che sfoderare il “coast to coast” straordinario dell’eroe per caso, Bruno Peres, non può fare. Ubi maior dunque di fronte alla Juve, ma soprattutto al cospetto della magia di un architetto di trame che, a 35 anni, è ancora sulla breccia, con il potere di decidere match e, forse, anche un altro campionato. Da quando Pirlo è arrivato alla Juve, su espressa richiesta del lungimirante Antonio Conte (da ct lo ha convinto a tornare in Nazionale), ha vinto tre scudetti di fila. Al Milan lo aveva “tagliato” quel Max Allegri che, a maggior ragione dopo il gol-derby, e il primato invariato in classifica, si riabilita con tutti gli interessi dinanzi al popolo juventino che lo aveva accolto con comprensibile scetticismo.Il conte Max deve ringraziare Pirlo, l’amico ritrovato, lasciato andare con troppa leggerezza anche dal navigato Galliani, in quanto ormai «vecchio e stanco», si pensava dopo 401 battaglie combattute in un Milan con il quale aveva conquistato 2 Champions una Coppa del mondo per club e due scudetti. Bilancio sontuoso, degno del regista laureato alla scuola superiore del maestro e «modello» Roberto Baggio. Fatto sta che Pirlo continua a fare la differenza in una Serie A sempre più ricca di stranieri e sempre più avara di italici dotati di fantasia. Inevitabile dunque che l’Andrea nazionale sia ancora al potere alla Juve, così come alla Roma sono tutti ai piedi del capitano, il 38enne Francesco Totti. Veterani silenziosi, campioni del mondo e rari reduci di Berlino 2006, il cui segreto è quello di giocare con lo stesso disincanto e la semplicità (sinonimo del fuoriclasse) di quando hanno cominciato. Vent’anni di gratitudine per i due geni precoci che mossero i primi passi nel lontano 1994, Pirlo al Brescia e Totti nella sua eterna mamma Roma. Due artistici inventori che resteranno tra i grandi della storia di cuoio. Se al “Pupone” giallorosso va infatti il merito di aver brevettato il “cucchiaio” (specialità dal dischetto di rigore), Pirlo è il depositario della “maledetta”, la parabola velenosa (da calcio di punizione) che sale su e poi scende repentina a beffare l’incolpevole portiere avversario. Per questo pezzo unico c’è chi ha detto: «Nelle punizioni mi ispiro a Pirlo». Parola di Leo Messi, che magari uno dei suoi tre Pallone d’Oro poteva lasciarlo a mastro Pirlo.
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