giovedì 27 maggio 2021
Catherine Chalier spiega l’amore secondo la tradizione rabbinica dialogando, sulle orme di Lévinas, con l’intera storia del pensiero cristiano. Scalzando non pochi stereotipi
Marc Chagall, "Cantico dei Cantici I"

Marc Chagall, "Cantico dei Cantici I" - archivio

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In principio era l’equivoco, forse generato dall’arcieretico Marcione già nel II secolo dell’era cristiana. L’equivoco cioè che il Dio della Bibbia ebraica fosse solo un demiurgo responsabile del male nel mondo, ossessionato dalla giustizia in forma di castigo, e che invece il Dio “più alto”, quello del Nuovo Testamento, fosse tutto amore e perdono, e che tra i due non potesse che esserci inimicizia e conflitto. Larga parte del difficile rapporto tra ebrei e cristiani dipenderebbe da questa supposta contrapposizione, tanto facile da formulare quanto falsa da dimostrare. Falsa, ovviamente, già a partire dai testi dell’Antico Testamento dove il Creatore ha, simultaneamente, i tratti più severi del padre (o del re) e i modi affettuosi e dolci della madre, e dove la metafora più usata per i rapporti tra Dio e il suo popolo resta quella degli sposi, addirittura degli amanti, come nel potente poema del Cantico dei cantici. Nondimeno lo stereotipo è persistito e sopravvissuto in non poca retorica religiosa, e di riflesso persino in molti intellettuali laici.

Con questa premessa a mente, la filosofa Catherine Chalier, la più nota tra gli interpreti ebrei di Emmanuel Lévinas, ha tenuto una serie di lezioni all’Institute Catholique di Parigi, per la cattedra dedicata a Étienne Gilson, nel tentativo di spiegare quanto l’amore, in tutte le sue dimensioni, sia presente come comandamento e come valore negli scritti sacri dell’ebraismo: dalla Torà ai profeti, dal Talmud ai filosofi ebrei medievali, fino ai grandi maestri del chassidismo, parola questa che viene appunto da chesed, che in ebraico significa amore e pietà. Queste lezioni sono ora raccolte in un volume dal titolo L’amore nell’ebraismo. Filosofia e spiritualità ebraiche (Giuntina, pagine 300, euro 18,00), un libro che evita i pericoli speculari dell’apologia e della supponenza, e riesce piuttosto a dialogare, da un punto di vista ebraico, con l’intera storia del pensiero cristiano. Ma come spiegare, in modo semplice e convinvente, che la controversia tra Legge e amore è falsa e tendenziosa? Che ogni precetto ebraico è sempre animato dall’amore per Dio e per ogni altra creatura vivente? Che non vi è dicotomia tra istanze di vera giustizia e disposizione al perdono autentico, ma solo un’esigente co-implicazione? E come narrare la bellezza dell’integrazione tra eros e agape, che nei testi biblici continuamente si intrecciano, si contemperano e si esaltano a vicenda, senza nessuna forma di sessuofobia o di dualismo manicheo?

Forte del linguaggio paradossale e a tratti iperbolico del suo mentore Lévinas, Catherine Chalier affronta uno stereotipo dopo l’altro e immerge il lettore e la lettrice di queste pagine nell’oceano della riflessione rabbinica sul tema dell’amore di Dio (dove il genitivo è sia soggettivo sia oggettivo) e del dovere di amare il prossimo e lo straniero come chiunque appaia vulnerabile nella scala sociale e persino nell’orizzonte dell’intera creazione. Chi si sobbarchi la fatica di questa lettura, o meglio di questo studio delle fonti, resterà sorpreso dal gran numero di domande con cui la studiosa procede, come se la grazia divina e l’amore umano restassero, sostanzialmente, non solo un dono che coglie che ne è oggetto sempre impreparato e persino inadeguato a rispondere, ma soprattutto un mistero, un enigma, da interrogare e su cui gli interrogativi sovrastano le possibili risposte. Non mancano poi, qua e là, anche domande provocatorie, come quella circa la cecità cristiana che per secoli non è riuscita a percepire come «la perseveranza ebraica nella fede dei padri e nell’osservanza dei precetti» – chiamata con spregio ostinazione – altro non era che amore, un amore radicale per Dio e la sua Torà o, come scrisse audacemente proprio Lévinas, «un amare la Torà più di Dio stesso».

Quest’incomprensione «ha tragicamente reso fragile, agli occhi degli ebrei, l’amore cristiano» dice Chalier, che subito estende l’interrogativo anche al modo con cui accostiamo e giudichiamo le esperienze religiose di altri popoli, le culture e le religioni diverse dalla nostra. Il pensiero corre a William James e al suo pionieristico testo, qui non citato, sulla “varietà dell’esperienza religiosa”. Altro stereotipo frequente è quello che contrappone l’amore al timore di Dio, come se non si trattasse di due aspetti correlati e come se questo tratto tipico della spiritualità biblica andasse all’improvviso assorbito e dissolto nel comando evangelico del “non temere”. Con pazienza Chalier mostra che nella tradizione biblico-rabbinica aver timore non è sinonimo di aver paura o di provare terrore (tale aspetto della Bibbia sembra spesso taciuto dai teologi cristiani); piuttosto il timore è sempre associato alla coscienza della incommensurabilità del divino ed esprime la conseguente consapevolezza dei nostri limiti cognitivi e affettivi, dei nostri errori concettuali, della nostra fragilità morale. Buttar via il timore di Dio, in quest’accezione, preclude non tanto la comprensione della ricca antropologia dei testi sacri quanto i nostri tentativi di “conoscere Dio”. E chi più di Maimonide ha posto tale conoscenza al centro della propria spiritualità, oltre che della filosofia del mondo ebraico?

La teologia negativa del maggior pensatore ebreo del Medioevo era infatti tesa a purificare la nostra immaginazione da antropomorfismi fuorvianti, ricordandoci con rigore che persino l’espressione “Dio è buono” proietta su Dio la nostra esperienza di bontà. Ciò non impedisce di sapere che “Dio ama il mondo”, ma libera l’amore divino dalla nostra pretesa di fissarlo in categorie umane. Per Maimonide la Bibbia insegna che «la conoscenza e l’amore sono inscindibili, almeno la conoscenza vera, quella liberata dalle scorie dell’ignoranza e dai pregiudizi su Dio». Poco sapere equivale a poco amore, ecco il tratto comune a tutta la spiritualità ebraica, afferma Chalier a più riprese, perché non si può amare (non solo umanamente parlando) che quel che si conosce. Da qui l’imperativo ebraico di studiare. “Va e studia” è l’ammonimento con cui Hillel l’anziano, nel Talmud, accompagna la regola aurea, il precetto del non far male al prossimo. Infatti, come si può amare il Creatore, dice l’intera tradizione rabbinica successiva, se non si riconosce, per negligenza nello studio, il valore della sua straordinaria creazione?

Ma le pagine più affascinanti sono quelle che illuminano il bisogno di temperare l’amore stesso con il senso della giustizia, senza il quale l’amore rischia di diventare “patetico” (nel senso levinasiano del termine), incentrato sul nostro pathos più che sul volto altrui, ruotando sulla nostra capacità di empatia che resta però circoscritta alla relazione immediata e perde di vista quel “terzo” che l’amore non vede, che resta fuori dalla prospettiva affettiva. La tzedaqà è la giustizia che estende l’amore anche fuori dall’orizzonte degli amanti, e stimola l’amore ad aprirsi, a non diventare patetico o addirittura patologico. Chesed e din ossia amore a giustizia – come eros e agape – sono ebraicamente inseparabili, anzi si esigono e si rafforzano a vicenda, impedendo che il particolare soffochi l’universale o il sentimento faccia torto alla ragione. Ora, questo amore giusto e questa giustizia ricca di pietas possono spingersi fino al sacrificio di sé? Nell’ultimo capitolo la filosofa ebrea francese affronta anche questa domanda, mostrando come la tradizione rabbinica la conosca bene ma non abbia fretta a dare risposte. Del resto, il versetto del Cantico recita: «Forte come la morte è amore». Se sia più forte (o meno), non sempre dipende da scelta umana.

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