mercoledì 16 settembre 2015
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Da Isocrate a Thomas Mann, passando per Vitruvio e Goethe – pensatori e scrittori accomunati dal desiderio di conoscere l’umanità, in venticinque secoli – la filologia mette a fuoco il suo ruolo di concreto incentivo alla pienezza della lettura. Non solo come disciplina specialistica, affidata a esperti dagli strumenti di lavoro affilati, ma pedanti e inavvicinabili, bensì come via completa verso il sapere. Anzi, la base stessa su cui il sapere si fonda, la garanzia che sulle pagine che ci vengono offerte in lettura abbiano scritto davvero i grandi autori del passato che impressero la loro impronta sulla nostra cultura. Ascoltando la voce autentica dei testi, la filologia classica permette di raggiungere l’arricchimento interiore che «la certezza testuale conferisce». Questo è l’intento che muove il grande filologo classico Antonio Bernardini (1885-1917), e Gaetano Righi (1892-1968), insigne filosofo e latinista, nel comporre questo monumentale ritratto della filologia, complessa macchina interpretativa che svela il volto della letteratura: Il concetto di filologia e di cultura classica. Un libro nato durante la Grande Guerra per mano di Antonio Bernardini e che, rimasto incompiuto per la morte prematura dell’autore, era stato ripreso da Gaetano Righi, suo allievo ed erede spirituale, in prima edizione nel 1947 (ora è riproposto da Aragno; pagine 618, euro 30,00).I due autori condividono una salda convinzione: che la filologia debba essere considerata una disciplina autonoma, una forma di conoscenza «emozionale, testuale, interpretativa». In questo senso ampio la filologia, non solo classica, va intesa come un insieme di teoria e pratica, una disciplina che impegna la parte razionale, ma anche intuitiva e il senso estetico di chi la pratica. Non vale quindi, per il filologo che sappia essere anche un teorico della propria attività la definizione avvilente che ne aveva dato Benedetto Croce, alludendo con un’espressione alla Giordano Bruno a un asinus portans mysteria, per descrivere l’azione esclusivamente pratica di chi prepara il materiale che altri interpreteranno. Il filologo, invece, è colui che agisce spinto da un insopprimibile bisogno di verità, qualità che condivide con il filosofo, con lo studioso di letteratura, con lo storico, e che ne fa qualcosa di più di un semplice strumento preparatorio per un intervento altrui. Vale quindi, al contrario, l’idea di filologia che celebra Thomas Mann, partendo dal significato più profondo e autentico che nella sua lingua, il tedesco, la parola ha conservato: una disciplina «intimamente e misteriosamente connessa al vivente e amoroso senso della bellezza ed insieme al senso della dignità razionale dell’uomo». Dunque, sentimento amoroso ed efficacia razionale formano un connubio potente, che affonda le sue radici nell’origine autentica della filologia: platonica, isocratea, legata alla scintilla della creatività, al potere costruttivo del pensiero. La filologia però, almeno nell’interpretazione più diffusa, tende a involversi nei secoli, assumendo una sorta di versione “alessandrina”, secondo la quale il filologo è soprattutto un affidabile erudito, incapace di un affondo interpretativo, e spesso perciò viene confuso con il bibliotecario, con chi fornisce notizie librarie. Reagendo con fermezza a questa erronea visione, ed entrando con largo anticipo in un dibattito che periodicamente si riapre, Bernardini e Righi mettono in luce il legame profondo tra filologia e scuola. Attraverso la via dialogica dell’insegnamento, rivolto non a propri pari, altri studiosi già esperti, ma a un pubblico che ha bisogno di attingere al sapere e di formare i propri strumenti di apprendimento e comprensione, la filologia dà i suoi frutti migliori. Uscendo dai libri ed entrando in contatto con la freschezza di giovani ascoltatori, può diventare strumento di trasmissione della cultura classica, la sola che secondo gli autori può portare a un tale livello intellettuale i suoi futuri membri «da fare più giusta e libera la società».
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