venerdì 12 febbraio 2010
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Polemiche in Egitto, polemiche in Italia. Non per gli stessi motivi, anche se la materia del contendere si riferisce comunque al clima incandescente del V secolo, che per la Chiesa fu stagione di sottigliezze dottrinali e di scontri consumati anche all’interno dei concili. Come quello celebrato a Efeso nel 431, nel corso del quale il patriarca di Alessandria, Cirillo, ottenne la condanna del confratello di Costantinopoli, Nestorio, colpevole – secondo l’accusa – di professare un’interpretazione capziosa della natura di Cristo. Non vero uomo e vero Dio kath’hupostasin, ossia per unione intima e inscindibile, ma soltanto nel prosopon, nell’aspetto esteriore. Al punto che Maria, nell’insegnamento di Nestorio, non andrebbe venerata in quanto "Madre di Dio" (Theotokos), bensì quale "Madre di Cristo" (Christothokos). Questione impervia? Non per Yousuf Ziedan, stimato studioso egiziano, esperto riconosciuto del misticismo sufi e autore di un paio di romanzi, il più recente dei quali, Azazel, arriva ora in Italia per iniziativa di Neri Pozza nella traduzione di Lorenzo Declich e Daniele Mascitelli (pagine 416, euro 17,50: il libro sarà presentato giovedì 18 febbraio alle 18 a Milano, presso la Sala del Grechetto di Palazzo Sormani, con un dialogo fra Ziedan stesso e Franco Cardini). Nel mondo arabo Azazel è stato un bestseller e si è meritato il riconoscimento come miglior romanzo del 2008, ma ha anche suscitato controversie per il processo di "islamizzazione" al quale sarebbe stata sottoposta la descrizione del cristianesimo del V secolo. A lamentarsi è stata anzitutto la Chiesa copta, erede del magistero di Cirillo, al quale nel racconto di Ziedan tocca il ruolo di antagonista spietato del pensoso Nestorio. Alcune delle rimostranze avanzate dai cristiani d’Egitto suonano difficili da condividere per la mentalità europea. Azazel, per esempio, si presenta con il classico stratagemma del manoscritto ritrovato (Ziedan dirige, tra l’altro, il Museo collegato alla Biblioteca di Alessandria): un altrimenti sconosciuto monaco della tarda antichità, Ipa, affida a trenta pergamene redatte in siriaco le memorie di un’esistenza avventurosa e tormentata, dove la ricerca della verità si accompagna spesso alla tentazione della carne. Un modo per confondere i piani della realtà storica e dell’invenzione, secondo i contestatori del libro; niente più che un espediente letterario per l’autore, che ha respinto l’assimilazione alle dietrologie del Codice Da Vinci e rivendicato un’ispirazione più prossima al mimetismo linguistico del Nome della rosa. Resta il fatto che Azazel si apre, in maniera abbastanza singolare, con la citazione di un hadith, un detto del Profeta, in cui Maometto allude alla possibilità di convertire il demone annidato nel cuore di ogni uomo. Per Ipa il demone è Azazel, il dio-caprone della tradizione semita, e la sua voce si confonde spesso con quella dello stesso narratore, in un’incertezza di prospettive che legittima il fastidio con cui i copti, ancora costretti a vivere la loro fede in condizione subalterna, hanno accolto la pur erudita ricostruzione del musulmano Ziedan. Ipa, in ogni caso, è un nestoriano tutt’altro che pentito e la sua ostilità nei confronti di Cirillo è ulteriormente accresciuta dall’essere stato testimone dell’uccisione di Ipazia, la filosofa e matematica neoplatonica massacrata nel 415 ad Alessandria da una folla di fanatici cristiani. Ed è questo punto che l’eco delle polemiche egiziane si salda con quelle di casa nostra, dato che Ipazia è anche la protagonista di Agorà, il film dello spagnolo Alejandro Amenábar la cui mancata distribuzione in Italia ha suscitato sospetti di censura, se non addirittura di complotto. In Azazel Ipazia riveste un ruolo centrale: sensibile al fascino femminile, Ipa è anche un medico appassionato, un cultore della scienza che pratica nel contempo le arti della musica e della poesia. La Maestra (come Ipazia viene definita) è per lui un modello intellettuale che integra perfettamente quello spirituale incarnato da Nestorio, scatenando così altri dubbi, altre inquietudini. Per il lettore italiano, del resto, non è questa la prima occasione di incontro con la drammatica vicenda di Ipazia. Già alla fine degli anni Sessanta il cattolico Mario Luzi aveva dedicato al martirio della pensatrice pagana un intenso dramma in versi, nel quale il corpo martoriato della donna era accostato senza reticenze a «Cristo… l’agnello… sfigurato, con artigli di tigre». Una condanna inappellabile (poi raccolta nel Libro di Ipazia, 1978) che dimostra come non sia mai esistita alcuna volontà di ignorare una ferita la cui riscoperta in chiave neoilluminista rischia oggi di apparire perlomeno tardiva. Quanto agli esiti del terzo Concilio di Efeso, vale la pena ricordare la "Dichiarazione cristologica comune" sottoscritta l’11 novembre 1994 da Giovanni Paolo II e dal patriarca nestoriano, Mar Dinkha IV: un testo che ha come obiettivo la riconciliazione e il superamento delle fratture del passato, nella convinzione che le antiche «formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che opporsi». Una consapevolezza che appartiene ormai in modo radicato all’esperienza delle Chiese cristiane e che per il momento risulta invece estranea all’orizzonte dottrinale islamico al quale, da ultimo, il romanzo di Ziedan sembra fare riferimento.
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