sabato 2 giugno 2018
Un saggio di Turi rilegge la storia della produzione libraria del nostro Paese mettendo in luce come dal dopoguerra ad oggi il problema della lettura sia ancora attuale
Una scena del film “Fahrenheit 451” di Ramin Bahrani ambientato in uno strano futuro in cui sarà proibito leggere o possedere libri

Una scena del film “Fahrenheit 451” di Ramin Bahrani ambientato in uno strano futuro in cui sarà proibito leggere o possedere libri

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«Quanto lavoro, caro Alvaro. Proprio non ne posso più. Stiamo combattendo contro un nemico che fugge: il pubblico. Questa è una avanzata nel deserto». Così scriveva allo scrittore calabrese l’editore Valentino Bompiani all’inizio del 1946. La denuncia dell’esiguo numero di lettori nell’Italia del primo dopoguerra, costituisce ancora, oltre settant’anni dopo, la lamentela più ricorrente fra quasi tutti gli editori nostrani rivelando la loro principale difficoltà: creare lettori. È la sfida - vecchia e attuale - che sta al centro anche del nuovo saggio di Gabriele Turi Libri e lettori nell’Italia repubblicana (Carocci, pagine 156, euro 14,00). Giri le pagine, rileggi le vicende di tante case editrici grandi e piccole, ti imbatti in autori spesso familiari, ti muovi lungo il Belpaese, passi da classici, collane, cataloghi di cultura non erosi dal tempo a tutta una letteratura di consumo dimenticata, salti da una sigla all’altra, ma il nodo essenziale rimane quello: il problema della lettura o della mancanza di lettori. Tuttavia, se all’inizio del periodo repubblicano lo si poteva attribuire ad un analfabetismo non ancora debellato, al fatto che due terzi della popolazione parlava dialetto, oggi a quali cause imputare i dati sconfortanti e terribilmente inferiori a quelli, ad esempio, delle vicine Francia o Germania? Eppure qui si parla di libri: forse gli “oggetti” più straordinari, che per lo più non hanno costi alti, che servono a fini pratici, formativi, ricreativi, che in larga parte trasmettono sapere e fanno riflettere, possono arricchire ed elevare lo spirito, e non poche volte sono voci di libertà da difesa “per costituzione”... Ma oggi - per uscirne - basta ripetere queste cose, mantenere questo approccio, o l’attenzione va spostata sui processi di produzione, di diffusione, sull’apporto di distributori, tipografi, librai? Per Turi affrontare la storia dell’editoria ricavandone lezioni per l’oggi, significa fare spazio non solo ai libri e agli autori con il loro pensiero e le loro idee, ma a tutti gli attori dello scenario dell’editoria egualmente protagonisti degli ultimi sei sette decenni nella cornice di sviluppi che, in questo settore indubbiamente sono stati paralleli alle trasformazioni indotte nel paese dal sistema democratico. «Il nesso fra il libro e l’ambiente in cui nasce e vive è forte, anche se i suoi esiti non sono scontati: l’editoria non è un microcosmo separato, ma si connette con la società, risponde ai suoi impulsi e li condiziona....», scrive Turi , pure pronto a ricordare il romanzo Fahrenheit 451, in cui lo scrittore Ray Bradbury rappresenta la vicenda di uno dei «militi del fuoco» incaricati dallo Stato di bruciare i libri, ritenuti fonte di infelicità in quanto suscitatori di dubbi... Sì l’esercizio della lettura è un po’ la condizione essenziale del mercato librario, non è però - insiste Turi - l’unico modo per affrontare la storia del libro, per la quale è necessario conoscere i comportamenti di tutta la filiera produttiva.

Scrive poi lo storico contemporaneista che, se è vero che sino agli Anni ’60 nel mondo editoriale vi sono dati innegabili su cui riflettere - la tenuta di alcuni caratteri addirittura risalenti al primo periodo unitario (frammentazione di tanti centri, debolezza del Mezzogiorno, specializzazione geografica con la produzione universitaria tra Bologna e Napoli, scolastica fra Torino e Firenze, narrativa soprattutto a Milano, ecc.), oltre a dati significativi legati al fattore “appartenenza” (si tratti della libreria come nuovo pulpito nella visione del fondatore della Società San Paolo, don Giacomo Alberione, o delle “voci ” di destra o di sinistra espressioni dell’editoria di partito, dagli Editori Riuniti all’editrice Cinque Lune) o di indirizzo politico (da Feltrinelli a Rusconi), in realtà mancano ancora studi specifici per una storia dell’editoria completa essendosi concentrato l’interesse degli studiosi - salvo rare eccezioni - sul ruolo lungo i decenni degli intellettuali. Dunque conosciamo tutt’al più una storia dell’editoria come pura storia delle idee, mentre restano piuttosto in ombra le cosiddette questioni aziendali: i risultati economici delle imprese, i bilanci, i finanziamenti, le vere tirature, che pure sono parte integrante di questa affascinante realtà. Non estranee certo agli scossoni che hanno visto processi di concentrazione allarmanti dagli anni Ottanta del ’900 all’inizio del XXI secolo - esempio paradigmatico l’acquisto di Rcs Libri da parte di Mondadori. Ma qui Turi canta un po’ fuori dal coro: «In Italia gli uomini di cultura tendono a mitizzare il passato, senza pensare che l’editoria ha nel paese una tradizione lunga e complessa. Nella quale le fasi di concentrazione sono state accompagnate, almeno fino ad ora, dal proliferare di piccole e piccolissime imprese capaci di coprire quelle nicchie di mercato sulle quali non avevano interesse ad intervenire i colossi editoriali. Questo non salva certo dal rischio di omologazione, ma lo limita in modo sensibile ». Pensate che abbia ragione?

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