venerdì 22 novembre 2013
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Sulla carta, l’uovo di Colombo: arricchirsi ripulendo il pianeta. Ma passando dalla teoria alla pratica l’economia verde (o green economy, per dirla con uno dei soliti anglismi) non ha mantenuto molte delle sue promesse. E prendono piede analisi sempre più critiche del fenomeno, come quella apparsa sull’ultimo numero di Concilium a firma di Leonardo Boff, teologo (anzi: «ecoteologo», come si definisce lui stesso) brasiliano. I punti di partenza dell’economia verde sono difficilmente contestabili: il richiamo alla sobrietà nei consumi, al rispetto dell’ambiente, alla sostenibilità sul lungo termine dei sistemi di produzione e di consumo. Per perseguirli le istituzioni governative e intergovernative hanno generato tutta una galassia di iniziative, organismi, documenti che rendono il concetto difficile da definire e isolare. È «verde» usare meno energia mantenendo inalterato il proprio stile di vita, ma anche cambiare stile di vita per usare meno energia o usarne addirittura di più, purché di origine rinnovabile. È «verde» sostituire i combustibili fossili (gas, petrolio, carbone) con eolico e solare, ma anche continuare ad andare a gas purché si riducano le emissioni inquinanti. Sotto lo stesso ombrello stanno sia le posizioni estreme di chi teorizza un ribaltamento epocale dell’economia umana (decrescita anziché crescita, riduzione dei consumi anziché aumento, rivoluzione della produzione e della distribuzione della ricchezza), sia floride aziende capitaliste: produttori di pale eoliche e pannelli solari, finanziarie che speculano sugli incentivi statali, operatori che aumentano i margini sui mercati delle materie prime includendo nuovi asset (anche qui l’anglismo è d’obbligo) come acqua, consumo del suolo, «impronta energetica». È su queste contraddizioni che Boff punta il dito: a partire dalla stessa espressione «economia verde», «nuovo linguaggio egemonico assunto dall’Onu». Per Boff – a lungo docente di teologia all’Istituto francescano di Petrópolis e quindi di filosofia all’Università Statale di Rio de Janeiro – «il progetto di un’economia verde si offre con la pretesa di essere un’alternativa all’attuale modo di produzione che punta a un accumulo illimitato», ma al contrario spesso è «un inverdimento ideologico dello stesso processo»: una mano di vernice (verde) che copre ma non modifica, e lascia immutati i meccanismi economici. Alcune strade appaiono condivisibili, dal recupero della aree disboscate alla «valorizzazione economica delle cosiddette esternalità come acqua, terreni, aria, cibo, paesaggi». Altre sembrano più pii desideri che reali progetti, come quel «miglioramento del benessere e dell’uguaglianza sociale» teorizzato dalla grande assise Onu Rio+20 del 2012. Altre ancora giungono a tradire platealmente le premesse: «L’economia verde può rappresentare anche una perversa avidità umana, specialmente da parte delle grandi multinazionali, capace di fare affari con quanto di più sacro vi è in natura». Se vuol essere qualcosa più che un mero slogan, l’economia verde ha già bisogno di ripensarsi in profondità.
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