mercoledì 29 aprile 2009
Lo storico Usa Richard Drake ha ripercorso l’influsso del padre del comunismo  nel nostro Paese: «Fece breccia prima al Sud. Per Cafiero solo la rivoluzione poteva riscattare la disperazione dei contadini».
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«Proletari di tutti i Paesi, unitevi!», scrisse Karl Marx nel suo Manifesto, sicuro che ormai il comunismo si sarebbe affermato ovunque. Forse, però, nemmeno lui avrebbe immaginato la fortuna del suo appello in Italia. Da noi infatti le idee rivoluzionarie del filosofo tedesco fecero breccia subito e sono dure a morire. Da Carlo Cafiero nel XIX secolo fino ai recenti militanti più estremisti del verbo marxista, il suolo italico è sempre stato terreno fertile per il padre del comunismo. Richard Drake, storico americano dell’Università del Montana e appassionato studioso del caso Moro e del fenomeno del terrorismo rosso di casa nostra, ne offre una chiara e interessante ricostruzione nel saggio Apostoli e agitatori. La tradizione rivoluzionaria marxista in Italia (Le Lettere, pagine 302, euro 35,00). Professor Drake come spiega il successo del marxismo in Italia? «Ha influito di sicuro la drammatica situazione del Meridione. Studiando il fenomeno alle origini, mi ha colpito la quantità di seguaci provenienti dal Sud. Non è un caso se il primo traduttore di Marx nell’Italia di fine Ottocento sia stato il pugliese Carlo Cafiero: lui pensava che la rivoluzione fosse l’unica risposta efficace contro gli sfruttatori dei contadini del Mezzogiorno. Ci furono poi meridionalisti come Pasquale Villari che documentarono la povertà disperata di questa gente. E l’incapacità dei governi liberali di risolvere i problemi offrì campo aperto al marxismo». Qual è stato il periodo di maggiore diffusione? «Da un punto di vista politico dopo la Seconda guerra mondiale, quando sotto la guida di Palmiro Togliatti il Pci divenne il più grande partito comunista dell’Europa occidentale. Però a livello intellettuale, sia Antonio Labriola nel tardo Ottocento che Antonio Gramsci negli anni Trenta del Novecento diedero grandi contributi al pensiero marxista. Sebbene Marx stesso riteneva che gli intellettuali fossero una categoria inutile per l’analisi storica, Gramsci ne comprese l’importanza come dimostra la teoria dell’egemonia culturale espressa nei Quaderni del carcere: con essa diede alla sinistra un metodo decisivo per capire il rapporto tra politica e cultura». Tra gli 'apostoli' italiani di Marx lei riserva un posto di primo piano anche a Benito Mussolini… «Capisco che molti a sinistra fanno fatica ad accettarlo, ma nessuno, prima della Grande guerra, rappresentò più di Mussolini lo spirito del marxismo rivoluzionario. Non a caso Gramsci e Amedeo Bordiga lo stimavano molto. Dopo il conflitto sposò il nazionalismo, ma Mussolini può essere considerato il 'Lenin italiano' della stagione anteguerra. La verità è che sin dai suoi esordi il marxismo italiano fu schizoide. Da un lato ci furono i socialisti riformisti, come Andrea Costa e Filippo Turati, che tentarono di armonizzare il marxismo con le tradizioni liberali e democratiche. Dall’altro i fautori della rivoluzione. Uno scontro che si è protratto almeno fino al 1956, quando Nikita Chrušcëv denunciò Stalin come il più sanguinario criminale della storia: il mondo comunista entrò in una crisi profonda».Che cosa successe allora in Italia? «Il Pci era imbevuto di stalinismo. Palmiro Togliatti riuscì in modo scaltro a garantire la 'doppiezza' del partito, ma non fu mai un riformista. Fedele all’Urss, rimase fino alla morte leninista, come dimostra il suo testamento. Dopo i fatti del 1956, però, i capi comunisti abbandonarono gradualmente la causa rivoluzionaria. In quel periodo di confusione ideologica, Raniero Panzieri fondò i Quaderni rossi per promuovere non il riformismo ormai palpabile nel Pci, ma l’autentica rivoluzione marxista-leninista infangata dai crimini di Stalin. Fu l’inizio della sinistra extraparlamentare, dalle cui frangi più radicali emersero le Brigate Rosse nel 1970…». Ma era la lotta armata la via indicata da Marx? «Lui offrì un’analisi spietata del capitalismo. E non è un caso se oggi, in tempi di crisi economica, ritorna l’interesse per i suoi libri. Però, come ribadì giustamente Lenin, per Marx la violenza proletaria era l’unico modo per sopprimere i capitalisti e i loro governi. Criticando Eduard Bernstein e altri riformisti come Jean Jaurès e Filippo Turati, Lenin citò numerosi passi degli scritti di Marx in cui si trovano consigli efferati. Durante la Comune di Parigi, Marx stesso identificò la fucilazione dell’arcivescovo Georges Darboy come un atto comprensibile della violenza rivoluzionaria. L’immagine di un Marx 'pacifista' è piuttosto falsa». Era quindi prevedibile l’esplosione delle Brigate Rosse? «Esse furono un autentico gruppo marxista-leninista la cui feroce campagna contro l’establishment democristiano aveva goduto di un ampio e costante appoggio del movimento extraparlamentare di sinistra all’interno del Partito comunista ufficiale. Almeno fino all’uccisione di Aldo Moro, sulla cui morte c’è la firma dei brigatisti rossi nonostante si continuino ad alimentare teorie complottistiche. Per fortuna la nuova generazione delle Br non sembra capace di produrre capi paragonabili a quelli degli anni Settanta. E allora fu decisivo quel sostegno politico. Anche l’ex terrorista Renato Curcio ricordando i numerosi atti di incoraggiamento dell’arcipelago extraparlamentare, ha fatto osservare che quanti a sinistra hanno dimenticato gli Anni di piombo vogliono dare alle Brigate Rosse 'un’altra storia, una storia separata'. Ma Curcio e altri hanno ribadito che l’organizzazione voleva tenere accesa la stessa lotta di classe dei padri rivoluzionari. Un altro ex, Patrizio Peci, ha spiegato: 'È ovvio che non si fa una scelta simile se non si crede completamente nel comunismo; se non si crede nella lotta armata come l’unico modo per realizzarlo, se non si crede nella vittoria'. Solo così si giustifica quel clima di terrore e intimidazione che in quegli anni non ha eguali in nessun altro Paese del mondo».
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