giovedì 13 dicembre 2012
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​Stasi. Un acronimo da Ministerium fur Staatsicherheit che evoca un’istintiva angoscia, che risuona come un ordine secco che impone immediata obbedienza. E che indica forse il peggior Moloch della già livida Germania comunista (Ddr), quella dei drammi del "Muro", delle esecuzioni sommarie nei sotterranei della centrale di polizia, dei controlli spietati delle "vite degli altri". Al momento del crollo del "Muro", simboleggiato dalle libere picconate popolari che, trasmesse dalle televisioni del mondo, rimangono fotogrammi imperituri del museo virtuale della libertà, la Stasi provvide a fare quello che ogni organo di spionaggio fa in circostanze analoghe: distruggere e incenerire la maggior parte della documentazione "sensibile". Provvide così a tritare documenti ma non fece in tempo a incenerirli tutti. Giunti i "colleghi" dell’Ovest l’azione di autotutela ebbe termine. Jorge Stoye, direttore dell’odierno Archivio della Stasi ha ricordato che circa un terzo della documentazione complessiva, essenzialmente relativa ad "attività occidentali", è andata distrutta. Tuttavia la parte tritata ma non ancora incenerita della documentazione è stata recuperata ed è attualmente oggetto di un programma straordinario di ricomposizione che si annuncia inevitabilmente lento, ma che, pur con tempi lunghi, darà i suoi frutti. Come che sia, e con tutte le cautele e incertezze determinate da una simile residualità archivistica, alcuni protocolli di ricerca avviati con la collaborazione di Veronica Arpaia stanno dando dei risultati, il primo dei quali è qui offerto ai nostri lettori.Che la Stasi controllasse i propri sudditi all’estero era ampiamente noto; molto probabile che seguisse all’interno della Ddr anche le attività di intellettuali di altri Stati. Poco noto o affatto ignoto che la Stasi seguisse comunque attività di intellettuali non tedesco-orientali anche nei loro stessi paesi. Renzo De Felice tra questi. Il primo documento reperito che lo riguarda è del novembre 1977, ma non sembra davvero essere il primo, il primo di un eventuale dossier intestatogli. Lo si può congetturare dalla "scheda" della Stasi, riportata nella foto accanto, che omette le caratteristiche elementari di ogni schedatura: data di nascita, residenza, segni particolari ecc., che pure risultano richieste nello stampato; se ne dovrebbe dedurre che dunque altre schede e tra queste la prima con i relativi dati biografici possano essere ancora conservate e forse anche reperibili.Si legge nel testo del breve rapporto fatto da chissà quale "fiduciario", agente o referente diplomatico che fosse, che «nel periodo compreso tra il 25 e il 28 novembre 1977 si è svolto a Roma un Sacharow-Hearing [udienza del Tribunale internazionale Sacharov], nel corso del quale, tra l’altro, la Ddr è stata accusata di violazione dei diritti umani. Nella fase preparatoria e nello svolgimento di questo Hearing è intervenuta attivamente la persona summenzionata [Renzo De Felice] in veste di membro del direttivo, e in particolare di una Commissione». Non è molto, ma è sufficiente a dimostrare che De Felice era seguito, e che la notizia di quella sua partecipazione al Tribunale internazionale Sacharov (nato per denunciare pubblicamente le violazioni dei diritti umani, non per giudicare Stati e governi che se ne rendessero responsabili), non poteva essere desunta solo dai giornali dato che il breve rapporto della Stasi fa riferimento alle attività di De Felice nella "fase preparatoria", dunque non pubblica, dei lavori.La sessione romana fu la seconda seduta del Tribunale Sacharov dopo quella tenutasi nell’ottobre ’75 a Copenahgen in un’aula del Parlamento danese. I lavori romani, sotto la presidenza di Simon Wiesenthal, aperti da un messaggio video registrato nella casa moscovita dello stesso Sacharov, cadevano in un momento in cui il blocco sovietico si trovava a far fronte ad una campagna occidentale, esemplata dalla concomitante Biennale del dissenso tenuta a Venezia sul tema «Socialismo e libertà»; in seria difficoltà la stessa Ddr a causa degli strascichi dei casi dei due dissidenti, il fisico Havemann e il cantautore Biermann (costretto all’inerzia intellettuale il primo, espulso il secondo) tanto da dover pianificare una specifica controffensiva politico-culturale. Eppure i giornali italiani non dettero eccessivo risalto all’iniziativa romana del Tribunale Sacharov. Minimalisti "l’Unità" e il "Manifesto"; non oltre l’essenzialità (pur con l’autorevole firma di Valiani) il "Corriere" di Piero Ottone... Comprensibilmente prodigo di notizie "il Giornale" di Montanelli che (con "La Stampa" e "Avvenire"), riservò ampia attenzione ai lavori del Tribunale Sacharov citando espressamente De Felice (e lamentando, a fine lavori, il silenzio degli intellettuali). Un De Felice, ricordiamo, che in quell’anno accademico aveva vissuto sulla propria pelle le violenze di ritorno (dal ’68) della contestazione studentesca: fatto bersaglio di aggressioni, di interruzione delle lezioni presso l’Università di Roma, non diversamente da altri colleghi della stessa Università poco proclivi a sottostare a imposizioni ideologiche, come Rosario Romeo, Armando Saitta ed altri ancora. A quelle violenze, che alimentavano la spirale tragica del terrorismo brigatista, De Felice dedicò un paio di interventi che, riletti oggi, acquisiscono uno spessore straordinario: in un suo articolo, "I nuovi figli del caos", pubblicato sul "Giornale" del 13 aprile ’77 e in un’intervista a Gianluigi degli Esposti, Perché la rivolta, poi edita nel ’78, parlò di «cause che vengono dall’esterno», di rivolta non capita dalla cultura, dalla politica, dai partiti. Nell’articolo richiamava fin nel titolo la definizione di "figli del caos" data da Hitler a gruppi della sinistra nazista; una genealogia richiamata anche nell’intervista, come «condizione psicologica (…) alla base di un certo nazismo di sinistra». Proprio quello che lo contestava duramente e che dalla Germania comunista, a quanto pare, lo spiava.
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