giovedì 18 giugno 2009
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E quando fu che, probabilmente a torto, l’elevazione divenne il punto centrale della messa? Lo sappiamo con esattezza: fu tra l’XI e il XIII secolo, in ambiente cluniacense, in Italia e Francia soprattutto; e – particolare da paradosso – all’inizio i vescovi ne erano parecchio preoccupati, poiché pensava­no che la cosa potesse degenerare in i­dolatria... Escono curiosamente insie­me, e per la medesima editrice Edb, due volumi che trattano in modo diverso del culto eucaristico e in specie dell’eleva­zione dell’ostia: gesto che secoli di rito e di devozione hanno caricato d’enfasi, ma che andrebbe più profondamente ricompreso, soprattutto nel clima teolo­gico ed ecclesiale dell’epoca in cui nac­que. I testi sono quello postumo di Ri­naldo Falsini (francescano liturgista, grande protagonista della riforma con­ciliare) Celebrare e vivere il mistero eu­caristico ( pp. 158, euro 14,50, a cura di Mirella Susini) e Spazi e immagini del­l’Eucaristia. Il caso di Orvieto ( pp. 280, euro 26,70) curato da Gianni Cioli, Seve­rino Dianich e Valerio Mauro, dove que­st’ultimo – cappuccino, docente di Teo­logia sacramentaria – firma un lungo saggio proprio su « Vedere l’ostia » . Per­ché se l’eucaristia trova la sua origine nell’atto del mangiare ( « Prendete e mangiate » ), è fondamentale e istruttivo capire attraverso quali evoluzioni l’inte­resse prevalente si spostò invece sul guardare. Lo spiega padre Mauro, collo­cando tale tendenza in « una sorta di tensione spirituale » collettiva del Me­dioevo che esprimeva il « desiderio di contemplare » l’ostia, anche per essere più vicini e partecipi all’umanità di Cri­sto; d’altronde ormai da qualche secolo la teologia enfatizzava la presenza reale eucaristica e anche nei fedeli cresceva ( contemporaneamente alla riduzione delle comunioni) l’interesse a « vedere » il sacramento. Una sorta di elevazione esisteva già nel rito originario della messa, ma al momento della comunio­ne e della formula « Ecco l’Agnello di Dio » . Furono dall’XI secolo i cluniacensi ( ordine appena costituito e molto attivo in quell’e­poca) ad accen­tuare il gesto pre­visto nelle rubri­che del messale romano quando, al momento di di­re « Prese il pane » , si doveva portare l’ostia all’altezza del petto: essi cominciarono invece a sollevarla alta sopra la testa, a volte nel momento stesso in cui pronunciavano le parole della consacrazione. L’innova­zione piacque molto ai fedeli, ma non altrettanto alla gerarchia la cui « preoc­cupazione pastorale – scrive Mauro – si rivolse soprattutto a evitare gesti di ado­razione indebita, qualificata tranquilla­mente come idolatra » ; in effetti, il ri­schio di interpretare quell’atto in modo superstizioso o addirittura magico non era lontano dalla realtà: c’era chi ritene­va che la visione dell’ostia equivalesse al sacramento ( si parlava addirittura di « comunione visiva » od « oculare » ) e « molti entravano in chiesa per assistere all’elevazione e, una volta finito il rito, se ne ritornavano alle loro occupazio­ni » , disinteressandosi completamente del resto della messa. Si pensava inoltre che tale pratica preservasse per quel giorno dalla morte improvvisa e la cre­denza non è del tutto estranea al fatto che si cominciarono a suonare le cam­pane alla consacrazione, in modo che i circostanti potessero letteralmente cor­rere in chiesa ( ci sono notizie persino di resse e incidenti). A loro volta i preti e­rano sollecitati a tenere l’ostia alzata il più a lungo possibile, oppure a ripetere l’elevazione varie volte, mentre un chie­rico teneva un cero alzato alle spalle del celebrante affinché i fedeli potessero vedere meglio il tondo bianco portato verso l’alto... Avevano dunque ragione i vescovi a tentare di regolamentare que­sta devozione, che si propagò molto ra­pidamente in Europa ( a tutt’oggi, l’ele­vazione è sconosciuta agli ortodossi); e, se già nel 1219 papa Onorio III racco­mandava di inchinarsi con riverenza al­la consacrazione, intorno alla metà del XII secolo si sentì la necessità di annet­tere all’elevazione un sovrasignificato spirituale, stringendo un’analogia con l’innalzamento di Cristo sulla croce. Vengono composte anche apposite ora­zioni – alcune delle quali tuttora in uso – da pronunciare mentre si fissa il pane consacrato. D’altronde nel 1274 viene i­stituita la festa del Corpus Domini, con relativa processione cittadina ( in prati­ca un’ « elevazione » prolungata e pubbli­ca): « Dall’interno della celebrazione – scrive padre Falsini – il culto reso all’o­stia è stato portato fuori in processione, cui seguirà l’esposizione » ; e il culto eu­caristico si stacca così sempre più dalla messa, trovando spazi a sé come quelli dell’adorazione: la quale ha il suo perno nell’ostensorio, oggetto sostitutivo del gesto sacerdotale dell’elevazione. La vi­sione e il « riconoscimento » dell’ostia funzionano peraltro come attestato di ortodossia, contro le varie tendenze e­reticali che negano la presenza reale nell’eucaristia. Si tratta però – crede an­cora Valerio Mauro – di un risultato « pa­gato a caro prezzo. La visione devota dell’ostia non può essere messa sullo stesso piano della partecipazione alla mensa eucaristica » . Più tardi verrà la controversia luterana ( che non a caso accuserà di idolatria l’adorazione del­l’ostia) e la conseguente riforma cattoli­ca nella quale – ancora Falsini – « si con­suma la netta divisione tra altare e ta­bernacolo » : da allora in poi il culto eu­caristico puntato sullo sguardo « pola­rizza la pietà cattolica post- tridentina » oscurando l’aspetto di comunione, pra­ticamente fino al Vaticano II. Ma il pro­cesso non va interpretato solo nei suoi lati più discutibili. Attraverso una « rivo­luzione » proveniente dal basso, dal mondo laicale ( come spesso ac­cade nei cambia­menti della Chie­sa), infatti, l’ele­vazione dell’ostia e i successivi col­legati sviluppi cultuali danno vo­ce a un desiderio profondamente umano, quello del « vedere » , che dai secoli bui ad oggi non è affatto diminuito di valore – anzi! – ed è comunque culturalmente e teologica­mente assai legato al credere. Il cappuc­cino Mauro cita l’esempio del fondato­re, il Poverello d’Assisi, per il quale la vi­sione con gli occhi del corpo costituiva l’elemento forte di una spiritualità sem­pre e comunque collegata al Vangelo: «L’animo di Francesco ci aiuta a com­prendere una possibile interpretazione del desiderio medievale di vedere l’o­stia. Abbandonando ogni deriva magica o superstiziosa, possiamo cogliere in quel gesto così distante dalla nostra prospettiva culturale e liturgica i pre­supposti per un’espressione autentica della fede... Il desiderio in se stesso era animato da uno spirito evangelico: la vi­sione come possibile passo verso una fede piena e matura » . Severino Dianich «Il miracolo del corporale» affrescato da Ugolino di Prete Ilario nella cattedrale di Orvieto
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