martedì 13 ottobre 2009
È il simbolo della città e il piedestallo della Madonnina, ma il suo autore Francesco Croce è quasi ignoto e anzi sembra vittima di un «complotto» per oscurare la grandezza della sua opera Ora un libro lo riabilita.
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Sarà anche bella e famosa, la Madunina tuta dora e piscinina. Però guai a chiedere chi e quando abbia messo lassù colei che rappresenta il simbolo più noto di Milano: non c’è nessuno, meneghino od oriundo, capace di sciorinare sull’unghia la risposta esatta. Se poi si passa al suo piedestallo, ovvero la «gran guglia» che la sostiene in altezze da cui è permesso brillare de lontan, l’ignoranza collettiva si fa ancor più abissale: la cattedrale è tardogotica, sarà dunque dovuto a qualche mastro medievale anche il pinnacolo che la corona a meraviglia (almeno così oggi ci pare)... O al massimo, visto che la «fabbrica del Duomo» si sa essere stata alquanto lenta, la sua punta più alta potrebbe aver sforato dentro il Rinascimento... Più in là, però, sembra davvero impossibile.E invece quel manufatto aereo e traforato come un merletto a sesto acuto ha soltanto 250 anni e non ha visto nemmeno da lontano gli Sforza, Leonardo, san Carlo Borromeo né Renzo Tramaglino; la guglia maggiore del Duomo venne infatti progettata dall’architetto Francesco Croce nel 1764 e fu costruita nel quinquennio successivo (la Madonnina – opera dello scultore Giuseppe Perego e dell’orafo Giuseppe Bini – fu invece posta in loco nel 1774). Un’opera grandiosa, se si tiene conto che da secoli il coronamento della cattedrale rappresentava un problema insoluto e che la scelta di collocare proprio sopra la cupola una torre di 600 tonnellate di marmo e 40 metri d’altezza rappresentava una decisione alquanto ardita.Bene fa dunque Marco Castelli a riesumare questa vicenda e il suo protagonista ne Il caso Croce (Ares, pp. 128, euro 15); e lo fa con tinte gialle, come «un delitto mediatico all’ombra della Madonnina». È infatti convincimento dell’autore, ricercatore dilettante ma appassionato nel campo dell’arte, che l’opera dell’architetto Francesco Croce – notevole esponente del «barocchetto» milanese, progettista della facciata di Palazzo Sormani (attuale Biblioteca civica) e del portico della Rotonda della Besana – sia stato volutamente nascosto e censurato: sia per motivi storici, sia per ragioni ideologiche. E anche per questo la Veneranda Fabbrica del Duomo e la Fondazione Collegio Ingegneri e Architetti di Milano organizzano il 28 ottobre, presso il Museo del Duomo, una giornata di studi che si propone di «riabilitare» l’autore della «Gran Guglia».Anzi, l’ingegner Castelli parla senza mezzi termini di «complotto illuminista» ai danni del povero Croce. Costui, classe 1696, aveva salito dal basso tutti i ranghi della professione fino ad essere architetto del Duomo nel 1760: ovvero proprio l’epoca in cui si scatenava il conflitto tra la Chiesa (quasi unica committente di opere d’arte, e dunque arbitra del gusto comune barocco) e il mondo «laico» ispirato all’«illuminata» sovranità asburgica di Maria Teresa e del figlio Giuseppe II e all’architetto neoclassico Giuseppe Piermarini; tra i rappresentanti della tradizione (in primis il cardinale Giuseppe Pozzobonelli, allora arcivescovo ambrosiano) e gli innovatori, compendiati a Milano nel circolo del «Caffé» dei fratelli Verri e del Beccaria.Dunque l’ultrassessantenne Croce si trovò a concludere una cattedrale che all’inizio del Settecento si mostrava ancora grandemente mutila e ben diversa dall’attuale, soprattutto nella facciata e nel coronamento superiore. Già Carlo Buzzi nel 1646 per concludere il Duomo aveva elaborato un progetto che era anche stato approvato nel 1653, però mai eseguito (anche se curiosamente venne riprodotto a lungo nelle stampe, come se fosse la vera immagine della chiesa). Un secolo dopo ritentò l’impresa Carlo Giuseppe Merlo, che però moriva nel 1760 lasciando l’incarico di completare l’opera all’assistente Croce. Il quale ripensò da capo la guglia nel senso dell’alleggerimento e della robustezza ed elaborò un progetto con soluzioni molto originali, come l’uso di giunti in ferro che «anticipano» il moderno concetto del cemento armato, approvate per quanto riguarda la resistenza da un giurì di quattro luminari dell’epoca.Ciò non bastò tuttavia a superare l’esame ben più ideologico dei «novatori», che infatti mossero guerra spietata alla nuova guglia. Pietro Verri la definì «ridicola e bestiale». L’ecclesiastico e scienziato Paolo Frisi scrisse un pamphlet (anonimo) di Brevi considerazioni sopra la Cupola del Duomo che l’accusava di attirare tutti i fulmini della pianura padana. E pare che non piacque nemmeno all’abate Giuseppe Parini... Così anche il suo autore – che «aveva il torto di essere l’ultimo rappresentante superstite del barocco, osteggiato dai giovani illuministi tutti fautori del neoclassico» – venne «oscurato», al punto che il nome non compare nelle guide fino al 1820 ma ancora oggi risulta a malapena citato persino nelle compilazioni che dovrebbero essere esaustive in materia. È vero che – come scrive Castelli – «questa "rimozione" non impedì alla sua opera di divenire un simbolo amatissimo dai milanesi, anzi il simbolo assoluto della "milanesità"»; tuttavia ormai una «riabilitazione» di Francesco Croce s’impone, magari – perché no? – dedicandogli una via: quella che, correndo su un fianco di Palazzo Reale, inquadra alla vista del passante proprio la «Gran Guglia» e, lassù in cima, la bela Madunina.
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