mercoledì 27 marzo 2019
Per il remake Disney del cartoon sul tenero elefantino Il regista si ispira ai nostri «maestri: Bava, Argento e Fellini». Ma il racconto resta imprigionato negli schemi hollywoodiani e la magia sfuma
Il film Disney “Dumbo” diretto da Tim Burton (Jay Maidment/Disney via AP)

Il film Disney “Dumbo” diretto da Tim Burton (Jay Maidment/Disney via AP)

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Il paradosso è questo: non c’è a Hollywood regista più adatto del sessantenne Tim Burton a raccontare la diversità derisa come mostruosa, un outsider oggetto di bullismo fisico e psicologico come Dumbo, il tenero elefantino che grazie alle sue sproporzionate orecchie riesce addirittura a volare. Il cinema di Burton, che sia di animazione o live action, è densamente popolato di freak fragili e gentili, capaci di trasformare debolezze e paure in straordinarie opportunità.

Al tempo stesso però non esiste forse a Hollywood un regista meno adatto di Burton a restituire sullo schermo lo spirito disneyano, a meno che non venga lasciato libero di spruzzare di nero le storie alle quali mette mano. Non è un caso infatti che dal 1980 a oggi i rapporti tra il regista e la major di Topolino, entrambi nati a Burbank, in California, siano stati un susseguirsi di colpi di fulmine e separazioni, felici collaborazioni e porte sbattute.

«L’idea di un eroe che trasforma in vantaggio un suo enorme difetto è ciò che più mi attrae di questa storia», ha dichiarato Burton, arrivato a Roma per presentare il film, versione live action del classico Disney, e per ritirare stasera il David di Donatello alla Carriera nel corso della cerimonia di premiazione in diretta su Rai 1 in prima serata. «Dumbo è un personaggio fortissimo, che sento molto vicino a me perché è il simbolo dell’artista che fatica a essere accettato. La Disney è una grande famiglia, anche un po’ la mia, e come tutte le famiglie, a volte le si ama e a volte le si odia».

La storia di Dumbo, nata nel 1939 per un nuovo dispositivo di intrattenimento chiamato Roll-A-Book, scritta da Helen Aberson e Harold Pearl, acquistata da Walt Disney e divenuta un film di animazione nel 1941, è quella di un cucciolo di elefante sbeffeggiato e umiliato a causa le sue grandi orecchie. Nel film di Burton il piccolo viene alla luce nel circo di Max Medici e affidato alle cure di Holt Farrier, appena tornato dalla guerra senza un braccio, e dei suoi figli Milly e Joe, orfani di madre, che a pochi minuti dai titoli di testa scoprono lo straordinario talento del neonato pachiderma. La cosa finisce sui giornali e attira l’attenzione dell’imprenditore V.A. Vandevere che decide di entrare in società con Medici per poter reclutare il prodigioso elefantino nella sua rutilante Dreamland. Ma dietro quella scintillante facciata si nascondono molti lati oscuri.

«Argento, Bava e Fellini sono sempre stati il mio punto di riferimento», dice Burton. «In ogni film di Fellini c’è qualcosa di circense, ma del circo vero e proprio amo solo i gotici colori sgargianti, mentre i clown mi hanno sempre fatto paura e gli animali in cattività tanta tristezza». La prima sostanziale differenza con il cartoon del 1941 («non mi ricordo esattamente quando l’ho visto, i film Disney sono come dei sogni fuori dal tempo» dice il regista) sta nel fatto che se lì la storia veniva raccontata dal punto di vista di Dumbo, protagonista di un viaggio alla scoperta delle proprie capacità, nel film di Burton sono gli adulti al centro della narrazione, in particolare i due bambini, che aiuteranno il cucciolo a volare e ritrovare la madre.

La conseguenza di questa scelta è il grande punto debole del film, che comincia proprio li dove finiva il cartoon: lo spettatore apprende subito infatti che Dumbo sa volare e lo darà per scontato nel corso di tutto il film osservando poi come il resto del mondo percepisce questa anomalia, tra stupore e raccapriccio. Tutta la magia dunque evapora nei primi minuti e lascia il posto alla solita corsa contro il tempo per trovare qualcuno e sfuggire a qualcun altro. E se Colin Farrell senza un braccio, fiero del proprio handicap, si inserisce bene nel circo Burton, a Eva Green, ormai attrice feticcio del regista, è affidata l’acrobata Colette Marchant, che a dispetto del ruolo speciale occupato nella storia, è uno dei personaggi più piatti e peggio scritti dallo sceneggiatore Ehren Kruger.

Di Tim Burton dunque, che con Disney aveva realizzato tra gli altri The Nightmare before Christmas, James e la pesca gigante, Alice in Wonderland, Frannkenweenie e Alice attraverso lo specchio, non rimane proprio nulla in questo film che non decolla mai, dove restano intatte solo la tenerezza dell’elefantino dagli occhi azzurri (generato al computer) e la canzone Bimbo mio (all’epoca candidata all’Oscar), che ha commosso parecchie generazioni e che oggi è interpretata da Elisa.

Proprio come Dumbo ingabbiato nella scintillante Dreamland, o Disneyland, che dir si voglia, Burton non riesce a dispiegare le ali e a volare, ed è per questo forse, a volerla leggere con un po’ di malizia, che accetta di dirigere un film dove il grande parco dei divertimenti, popolato da artisti che rischiano la vita e animali maltrattati, viene raso al suolo da un incendio. Una piccola, perfida rivincita morale su un impero dell’entertainment che al regista va decisamente troppo stretto.

E allora più che in Dumbo, Burton trova il suo vero alter ego in Danny De Vito, che nei panni del direttore del piccolo circo Max Medici, animato da sincera umanità e oneste ambizioni artistiche, viene comprato dal colosso del divertimento prima di ribellarsi e riacciuffare i propri sogni. Se così fosse con il suo prossimo film, Beetlejuice 2 Burton potrebbe finalmente tornare a volare.

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