giovedì 4 agosto 2022
Ancora oggi di questo record mondiale dello sterminio nell’unità di tempo diciamo poco, quasi niente
Il Memoriale della pace di Hiroshima

Il Memoriale della pace di Hiroshima - Epa/Dai Kurokawa

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La storia potrebbe iniziare visitando il Pantheon. Alla seconda o terza cappella, sulla sinistra, è conservato il feretro di Raffaello, con le belle parole dedicate a lui dal Bembo. È proprio sostando in questo tempio che il re della tavolozza del Rinascimento mi conduce alle stanze da lui affrescate in Vaticano per Giulio Della Rovere. Fra i suoi amplissimi affreschi, interrotti da sorella morte, lui trentasettenne, compare un cenacolo di poeti. Non sono molti e bisognava decidere e Raffaello pone in evidenza, fra Dante e Omero, la figura di Ludovico Ariosto. Non avrebbe potuto compiere una scelta più duratura per la storia a venire. Da quegli appartamenti, presso il colonnato del Bernini, attraverso le pagine dell’Orlando Furioso, giunge, attuale come non mai, la sua maledizione dedicata alla “invenzione” delle armi da fuoco. È trascorso un mezzo millennio di spari e di esplosioni, di eccidi sopra stermini, eppure non bastano mai. In questi giorni, viene a cadere una data che ha tatuato, con un ferro rovente, il muscolo cardiaco dell’umanità, per sempre. Sto parlando, avviandoci noi a un periodo di molta vacanza e di troppi sogni di una notte di mezza estate, di due barbecue con le carni del popolo giapponese, compiuti nelle rispettive città sbriciolate di Nagasaki e di Hiroshima. Ricordo che alcuni decenni orsono era circolato un romanzo, Il gran sole di Hiroshima, opera dello scrittore austriaco Karl Bruckner. Il libro ebbe una certa diffusione e raggiunse anche talune biblioteche scolastiche. Ma, stranamente, fu un fuoco di paglia, come conservare un gelato in spiaggia sotto l’ombrellone. Quella doppietta di episodi criminosi ha cambiato per sempre la storia dell’umanità. Eppure l’opinione mondiale continua a dire e non dire, a rammentare poco, come si ricorda un temporale che, fatte le spallucce, fa volgere subito l’attenzione alle previsioni metereologiche di un altro giorno. Si pensi che, l’anno passato, avendo io ricordato, con i miei Realisti Terminali, la vicenda anche in internet e a partire dalla libreria Bocca, in galleria a Milano, faticammo a trovare un contatto con il consolato giapponese nella metropoli ambrosiana, quasi che le ferie prevalessero su qualunque necessità di questo spaventoso ricordo. Il secolo precedente di orrori ne ha avuti a crepapelle e ne facciamo buona memoria. Di questo invece, che è il record mondiale dello sterminio nell’unità di tempo, di questo diciamo poco, quasi niente. Credo che tale colpa occidentale non abbia mai comportato alcuna richiesta né di scuse né di perdono rivolte all’umanità intera. Non so se vi è mai capitato di visitare un orto e di assistere a quando una talpa sta scavando il suo cunicolo fra le radici degli ortaggi. Essa non mostra mai alla luce del sole la sua propria fisicità, ma un dorso di terra si sposta lasciando una scia rilevata. Come a dire che la talpa c’è e lo sappiamo bene, non si mostra, ma neanche si nasconde del tutto. Insomma gli ortaggi continuano a non sentire sicure le proprie radici e quindi la propria sopravvivenza, perché con quella talpa non si sono fatti i conti una volta per tutte. È questa la situazione della geopolitica odierna. Un grande male, che alcuni hanno ordito contro l’umanità, rimane nel limbo. Come un delitto di mafia che, anche quando lo si ricordi, subito torna in un silenzio censurante. Qui però l’uditorio riguarda i quattro punti cardinali del nostro mappamondo. Da allora sono trascorsi tre quarti di secolo e tutta una cultura, quella occidentale, è andata brancolando nella reticenza, approntando novità sempre stagionali, perennemente prive di un reale fondamento veritativo. Ecco perché anche oggi, di fronte alle guerre che incalzano, si consuma il gioco d’azzardo delle tre carte: una è rappresentata dal profitto dei farmaci, l’altra dalla finanziarietà semianonima e la terza quella delle armi, che ci stanno portando al disastro. Nel ’45, contro l’arrostimento di due città, si levò, mi pare, solo la voce di Albert Camus, ma anche lui non ha potuto sviluppare più di tanto il ragionamento, perché il solito incidente stradale lo ha tolto di mezzo. Sarebbe giusto se il Teatro alla Scala, il Festival dei due Mondi, la Biennale di Venezia, per esempio, così come l’Onu o il Tribunale dell’Aia rammentassero lo scrupolo della verità della storia. Dopo di che la cultura, rianimata, potrebbe anche uscire, propositivamente, dalle note confezionate trasgressioni. Altrimenti, come si vede, le missioni di pace o i caschi blu non fanno altro che congelare e perpetuare lo sviluppo dell’odio.

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