giovedì 17 ottobre 2013
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Studiosa della miglior scuola filologica (di Calvino, Casanova e Palazzeschi), la fiorentina Francesca Serra continua ad agitare le acque della critica, non solo letteraria, con provocatoria intelligenza e originalità di sguardo. Sono passati appena due anni dalla pubblicazione di Le brave ragazze non leggono romanzi: un lavoro che fece molto discutere e che decostruiva, con insolente allegria e sicurezza di argomenti, tanti luoghi comuni sulla lettura al femminile. Arriva ora, sempre per Bollati Boringhieri, un libro veloce ma molto impegnativo, scritto in una prosa euforica e dal titolo suggestivo, La morte ci fa belle (pagine 144, euro 14,00), che poggia su una convinzione la quale, a metà Ottocento, già Edgar Allan Poe, aveva tradotto perfettamente: «Non c’è niente di più poetico al mondo della morte di una bella donna«. O ancora (son parole di Serra): «Nella difficile arte di morire, le donne sono insuperabili». Constatazione che aveva reso Théophile Gautier (dedicatario, nel 1857, dei Fiori del male) «uno dei più celebri collezionisti dell’amuleto più prezioso che allora si conoscesse contro l’orrore: le immagini di una bella donna morta», mentre è vero che, nel secondo Ottocento, il pittore James Bertrand, con grande successo, «si era specializzato nel ritratto delle eroine tragicamente defunte».Di che libro si tratta? Anche qui Serra dimostra un’invidiabile competenza multidisciplinare – antropologia e storia (persino della scienza), letteratura non solo italiana (antica e moderna), storia dell’arte, cinema, musica (sino a Jim Morrison) –, impegnando i nomi numinosi della nostra storia culturale (a cominciare da Manzoni), in vista d’una questione filosoficamente cruciale, tornata all’ordine del giorno col recente dibattito sul reato di femminicidio e sulla azione legislativa atta a contrastarlo. Una questione che può essere riassunta così: «mentre la donna muore il poeta sale, sale sempre più leggero».Ecco: «Il punto è che la bella morta è stata messa al centro dei riflettori proprio da loro, i grandi uomini. In ragione di un calcolo nient’affatto filantropico. Levate il mattoncino della sposa cadavere dal monumento alla gloria maschile e tutto crolla». Serra non ha dubbi: senza spose cadaveri mummificate nella loro bellezza, senza femmine nude e mercificate nella carne, che cosa resterebbe della storia letteraria e artistica occidentale? Con una conseguenza cruciale, che la quarta di copertina sintetizza con chiarezza quasi brutale: l’omicidio femminile sarebbe un mito fondativo della nostra cultura.Si può dissentire su molte cose di questo libro; tra metodo e contenuti. Difficile, però, non convenire con Serra su almeno due punti. Il primo: la qualità altamente simbolica che il femminile assume in ogni rappresentazione artistica e la necessità di tenerne conto in sede critica. Il secondo, implicito: che il grado di civiltà di una società si debba misurare – per dirla col Marx dei Manoscritti economico-filosofici del ’44 – sulla qualità del rapporto uomo-donna. Questa preponderanza del simbolico, nella pratica critica, si porta sempre dietro – intendiamoci: al di la delle intenzioni di Serra, che sono altre – un problema che a me sembra cruciale nell’esercizio della critica e che s’impone ogni volta che, nell’arte cosiddetta bella, si va a valutare opere a un’alta temperatura morale, d’una morale, diciamo così, pubblica, in conseguenza della promozione implicita che le stesse opere svolgerebbero di taluni disvalori etici e sociali.Detto in altri termini, e al più alto grado di schematizzazione: può un’opera continuare ad essere celebrata come bella nel mentre si dispone ad avallare comportamenti eticamente scorretti? Non lo dico in un senso banalmente moralistico: ma di un’etica che è, per così dire, intrinseca alla bellezza, alla sua interna legge. Per capirci: le Bagattelle per un massacro di Céline restano un libro modesto e molto brutto proprio in virtù della sua angustia morale, della sua mistificante e rozza idea di “razza ebraica”: che ne vanificano, per ciò stesso, ogni forza conoscitiva e valore estetico, malgrado lo stile.

Le domande, per essere ancora più chiari, sono analoghe a quelle che ci restavano dopo la lettura d’un capolavoro della critica come Orientalismo di Edward Said. Per dire: una volta accertata la responsabilità di Flaubert scrittore, nella costruzione del pregiudizio occidentale orientalistico, dovremmo per tale ragione ridimensionarne il valore estetico? Domande che, come si ricorderà, provocarono la reazione tradizionalista di Harold Bloom e del suo Canone occidentale. Su un altro piano, più mondano ma legato all’antropologia italiana: dovremmo accusare Fellini di misoginia solo per aver eretto, nei suoi film, quello straordinario monumento al vitellonismo? Io ne sono convinto: i simboli possono uccidere l’arte, la sua bellezza, ma non è proprio la grande l’arte, ogni giorno, a uccidere il nefasto potere dei simboli, redimendoli?

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