venerdì 4 gennaio 2013
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​«Il male non ha l’ultima parola. Benedetto XVI ce lo ha ripetuto più volte durante la visita in Messico, nel marzo scorso. E, ogni giorno, ho la conferma che il Santo Padre aveva ragione. Perché ogni giorno incontro donne e uomini che sfidano morte e persecuzione per combattere il male, con la voce della giustizia». Una voce che, a volte, si fa flebile. Ma mai scompare del tutto. Nemmeno nel Messico della narco-guerra, dove gli scontri tra esercito e gruppi criminali hanno fatto oltre 100 mila vittime in sei anni. E dove la violenza è ormai un fatto «strutturale». «Noi cristiani abbiamo il dovere di arginare la deriva. Come? Con la fede. Tema che il Papa ci ha invitato ad approfondire e riscoprire in questo Anno della fede. Per il mio Paese è una grande occasione di speranza». Non si rassegna allo sconforto, monsignor Raúl Vera López – don Raúl come preferisce farsi chiamare –, il vescovo-coraggio o il vescovo-antinarcos, come lo ha ribattezzato la stampa. Titoli impegnativi, che lui commenta con la solita ironia: «Solo perché non mi vedono tutte le volte che ho paura», ride, con il suo sorriso largo e rassicurante. È questa l’arma con cui, da un quarto di secolo, il pastore affronta le difficoltà. «È già passato tanto tempo? Non me ne sono quasi reso conto, è stato tutto così intenso...». Domenica saranno trascorsi esattamente 25 anni da quando don Raúl fu ordinato vescovo da Giovanni Paolo II in Vaticano. Un evento che la sua attuale diocesi – Saltillo, nel Coahuila – celebrerà con una serie di iniziative: incontri, dibattiti e la Messa all’aperto nel centrale Parque de las Maravillas. Agli eventi parteciperanno teologi da tutta l’America Latina. Ma anche numerosi esponenti della società civile, credenti e no, venuti a omaggiare lo straordinario impegno sociale del presule in difesa delle vittime della violenza, degli scomparsi, dei migranti, dei poveri, dei minatori. Un’attività infaticabile che l’anno scorso gli è valsa la candidatura al Nobel per la Pace. E che nel 2010 gli aveva permesso di ricevere il prestigioso Premio Rafto. «Sono dovuto andare in Norvegia a ritirarlo. Faceva troppo freddo. Pensi se fossi dovuto tornarci per il Nobel...». Non prende mai troppo sul serio la sua persona, don Raúl. Il suo tono si fa grave, però, quando parla di fede, la forza che a 23 anni l’ha spinto a lasciare una promettente carriera da ingegnere chimico per farsi frate dominicano. «La fede ci fa capire l’autentico senso della vita. E questa scoperta esige conseguenze. Ovvero la nostra partecipazione attiva, qui e ora, al progetto di Dio. Un progetto di giustizia, di pace, di rispetto, di riconoscimento della dignità dell’altro». Don Raúl fa una breve pausa e riprende: «L’Anno della fede è un’opportunità di riflessione che deve portarci a essere cristiani più maturi. Cristiani, dunque, in grado di cambiare la storia. Ognuno, in base al posto che occupa nella società, è chiamato a essere costruttore di pace, di giustizia, di misericordia e verità». Quello che manca ora al Messico e a molti altri Paesi feriti del mondo. Dove testimoniare il Vangelo è una sfida quotidiana. «Evangelizzare in mezzo a una spirale di violenza come quella che insanguina il Messico significa non stancarsi di gridare la verità. Una verità che ha la sua radice nell’amore per l’altro, nella giustizia, nella fratellanza. Significa camminare insieme alle vittime. Comprendendo che – come dice il Vangelo di Matteo – Dio viene glorificato nel cielo dalle nostre opere sulla terra». Certo, qualche volta la paura può prendere il sopravvento. «Ma lo Spirito Santo accorre in nostro aiuto. E trasforma in forza la debolezza. Consentendoci di affidare il nostro cuore e il nostro impegno a Dio con la stessa serenità con cui Gesù ha donato la sua vita». Negli ultimi 25 anni – segnati da momenti difficili per il pastore: dai dialoghi di pace con gli zapatisti al fianco di don Samuel Ruiz all’assistenza ai familiari dei desaparecidos della narco-guerra – don Raúl è andato spesso con il pensiero all’Orto degli Ulivi, dove Cristo accetta il sacrificio estremo. Per amore. Un amore ostinato. I cui barlumi – dice il vescovo – si riflettono nella lotta per il bene di molti messicane e messicani. «Per questo – conclude –, il male non può avere l’ultima parola».
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