sabato 16 ottobre 2010
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Don Peppino Diana venne ucciso dalla camorra all’alba del 19 marzo 1994, festa di San Giuseppe, nella sagrestia della sua parrocchia in Casal di Principe. Il libro che mettemmo insieme per ricordarlo, Per amore del mio popolo, vide la luce a dicembre dello stesso anno, quando del suo sacrificio si parlava poco o pochissimo, e nell’aversano si erano messe in giro voci inquietanti sulle cause della sua morte che tendevano a sminuirne la gravità riducendole a fatto privato. Non ricordo se fu poco tempo prima o poco tempo dopo che mi trovai a passare in macchina da Aversa, con Nicola Alfiero, e fummo bloccati dalla polizia: in mezzo alla strada c’era un morto ammazzato da poco, in una di quelle "guerre di camorra" che continuavano – che continuano – a insanguinare quel territorio la più cruenta delle quali fu la cosiddetta "guerra di Scampia" di pochi anni fa.Dal giorno in cui don Peppino fu ucciso sono passati sedici anni, e in mezzo c’è stato il libro di Roberto Saviano, Gomorra, che ha minuziosamente indagato e narrato, con i modi di un giornalismo letterario originale e generoso, le particolarità di quella parte d’Italia, le vicende delle organizzazioni criminali della zona, la loro natura economica, i loro legami con la politica, la loro influenza sui modi di vivere e sentire della popolazione. Uno dei capitoli più belli del libro ricostruisce vita e azioni di don Diana, e ha procurato una nuova e dovuta attenzione alla sua storia, ampiamente citando dai suoi scritti, che vennero raccolti e pubblicati per la prima volta nel volume del ’94.Dopo di allora, si sono moltiplicate le iniziative per ricordare don Diana, dei tipi più diversi, e alcune di esse hanno rasentato il folklore para-televisivo o vi sono implacabilmente cadute. La schiera dei "professionisti dell’antimafia" è in continuo aumento, ed è questa una delle forme più insidiose della falsa coscienza nazionale nei confronti di una malavita che è espressione di una floridissima economia criminale. Denunciare è facile, meno facile intervenire, sul posto e nei modi utili e giusti, che possono cambiare i modi di vivere consolidati, accettati. Questo succede spesso, in Italia, ed è doveroso continuare a scandalizzarne, ma così è, e ci si è fatta l’abitudine. Non ha molti scrupoli, la "società dello spettacolo" – anzi "dell’avanspettacolo", come ha detto qualcuno pensando ai finali disastri che essa sembra annunciare, e forse invocare.Il sangue di don Diana ha smosso qualche coscienza, ha sollecitato qualche giusta riflessione, ha costretto molti a guardare in faccia la realtà. Ma non possiamo farci illusioni: la camorra e le mafie sono un male inestirpabile, in una società come la nostra. Nel mondo in cui viviamo l’economia è strettamente legata al crimine (si calcola che l’economia criminale in senso stretto incida per il 12% per cento sulla nostra economia complessiva, ma questi calcoli non tengono conto, per esempio, del mercato ufficiale delle armi, considerato parte dell’economia legale, "giusta", "normale") e la concorrenza è l’anima dell’economia, di ogni economia. Le guerre di camorra non finiranno facilmente, e quando ci si trova di fronte a un’apparente pace sociale (come è il caso, oggi, della Sicilia), bisognerebbe interrogarsi sulle sue ragioni, e dubitare dell’accordo transitorio tra le parti (le "famiglie" tra loro, le famiglie e la società in cui operano, il "gioco" degli interessi e degli scambi…). Le "guerre di camorra" sono un aspetto inevitabile dell’economia attuale, mondiale? Esse sono in ogni caso un "incidente" ripetibile, sono una componente inevitabile del capitalismo contemporaneo. Ed è di qui che bisognerebbe partire per affrontare degnamente i problemi connessi al crimine organizzato nel nostro Paese – e sia dunque lode a chi ha insistito su questo aspetto, il più ipocritamente taciuto dai nostri media e dai nostri "buoni" per mestiere, dai nostri denunciatori di professione.Della raccolta di scritti di don Diana, di scritti su di lui e sul suo sacrificio, di scritti sulle condizioni della zona in cui egli operava e sulle organizzazioni criminali dell’aversano che mettemmo insieme nel lontano 1994, si sono serviti in molti, Saviano compreso per il bel capitolo di Gomorra su don Peppino, la cui vicenda è stata all’origine della sua prima comprensione critica della realtà in cui è cresciuto, ma quasi tutti si sono dimenticati di citarla. Ci siamo allora chiesti, i promotori e redattori di quella modesta e doverosa impresa, se non valesse la pena di riproporla, come documento ancora valido di una vicenda che ci sconvolse e commosse e di un’esperienza umana, civile e religiosa da non dimenticare; abbiamo letto quel che avevamo scritto e raccolto alla luce dell’oggi, cercando di allontanare qualsiasi tipo di compiacimento, e ne abbiamo concluso che ne valesse la pena, anche se sta al lettore il giudizio definitivo.Nel documento del Natale 1991 che dà il titolo al nostro libro, stilato da don Diana con gli altri sacerdoti di Casal di Principe e che ci è sembrato attuale oggi quanto ci sembrò esserlo ieri, si ricordava come fosse «ormai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli» e si auspicavano anzitutto «nuovi modelli di comportamento». La constatazione e l’invito non hanno perso di valore. Le denunce senza l’azione servono a niente, il sacrificio di don Diana ci richiama prima di ogni altra cosa al nostro dovere di essere insieme più acuti e lucidi sulle contraddizioni di un sistema economico, politico e sociale anche nelle sue ricadute antropologiche e culturali, più diffidenti nei confronti di chi parla e non fa, più coerenti nel commisurare le parole e le azioni, nel tradurre nella pratica le nostre persuasioni.
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