venerdì 27 maggio 2022
Lo scrittore vi fece un pellegrinaggio nel 1980, ma tutti i suoi titoli più noti, ispirati alle Scritture e in quei luoghi ambientati, sono precedenti. Del suo viaggio resta un libro, ora in italiano
Jan Dobraczynski

Jan Dobraczynski - archivio

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Con le dovute differenze e senza mancare di rispetto, è come se alla fine il capitano Salgari a Mompracem ci fosse andato veramente. Nel 1980, quando partecipa a un pellegrinaggio organizzato dalla diocesi di Varsavia, Jan Dobraczynski (1910-1994) è già uno scrittore affermato, celebre in particolare per i numerosi romanzi di ispirazione biblica ai quali ancora oggi è legata la sua notorietà. Libri come La spada santa, incentrato sulla figura di san Paolo, le Lettere di Nicodemo e, più che altro, L’ombra del padre, che a quasi mezzo secolo di distanza (la prima edizione polacca risale al 1977) rimane la più originale e profonda tra le rivisitazioni romanzesche della vicenda di san Giuseppe. Dobraczynski è un lettore attento delle Scritture oltre che un appassionato studioso di storia (lo dimostrano altri suoi romanzi, come Invincibile armata e Sotto le mura di Vienna, che ripercorre le imprese del re polacco Giovanni Sobieski), ha una profonda conoscenza degli scritti di Anna Katharina von Emmerich, la mistica tedesca le cui visioni saranno poi utilizzate da Mel Gibson per La Passione di Cristo, e si tiene costantemente aggiornato sulle acquisizioni dell’archeologia biblica. Nonostante questo, Dobraczynski non è mai stato Nella terra di Gesù, per riprendere il titolo del resoconto del viaggio che solo ora viene proposto da Morcelliana al pubblico italiano nella versione di Giuliana Bertone Zielinski come volume inaugurale della collana organicamente dedicata alle sue opere (pagine 192, euro 18,00). Un reportage d’autore, dunque, nel quale la freschezza della prima impressione non è mai inquinata dalla vastità e dalla precisione delle informazioni del quale lo scrittore già dispone. A colpire, in questo resoconto meticoloso e vivace, è anzitutto la formula di 'quinto Vangelo', che qui appare come sottotitolo. Impossibile non registrare la consonanza con il pressoché contemporaneo Il quinto evangelio di Mario Pomilio (1975), dove però l’espressione assume tutt’altro significato. Nel capolavoro dell’italiano, infatti, il 'Vangelo dei Vangeli' è un testo misterioso, che completa la Scrittura in virtù della sua assenza o, meglio, della sua inaccessibilità. Se ne può intuire il contenuto dai frammenti che a più riprese affiorano nel corso dei secoli, ma più che altro se ne può sperimentare la forza salvifica attraverso l’esistenza di quanti, in modo più o meno visibile, ne hanno messo in pratica gli insegnamenti. Per Dobraczynski, al contrario, il 'quinto Vangelo' è qualcosa di concreto, sperimentabile e addirittura tangibile. È, semplicemente, «la Terra santa, ma soltanto - aggiunge subito lo scrittore - qualora ne riviviamo consapevolmente ogni memoria». E poco più oltre, con ulteriore chiarezza, ribadisce che «nulla può sostituire la diretta esperienza». Nella terra di Gesù è, per l’appunto, la relazione di un’esperienza, per certi aspetti simile a quella di tanti altri pellegrini meno noti di Dobraczynski e meno abili di lui nell’arte del racconto. Le scomodità degli spostamenti, il caldo opprimente, le sistemazioni spesso poco corrispondenti alle abitudini del viaggiatore europeo: sono le pagine più divertite del libro, concentrate per lo più nella parte iniziale, nella quale Dobraczynski riferisce del breve soggiorno in Egitto. Si tratta di una specie di prologo al pellegrinaggio vero e proprio, una piccola scorribanda mediorientale scandita dalle premure di una guida tanto cerimoniosa quanto inaffidabile, dal traffico incessante del Cairo, dall’inefficienza di una burocrazia languida e pervasiva, dall’imponenza delle piramidi. L’approdo in Israele segna un cambio di passo, e non soltanto perché l’arrivo nel Paese si risolve nell’episodio surreale di una porta che si apre sulla nudità del deserto, senza che dall’altra parte ci sia qualcuno ad attendere. Mentre la comitiva si sposta di luogo santo in luogo santo, la prosa di Dobraczynski assume un andamento diverso. Ancora più serio, verrebbe da dire, e sicuramente più spirituale. Si osservino, per esempio, le frequenti notazioni sulla preghiera, che risulta pressoché impossibile nella calca del Sepolcro (la descrizione della basilica ha una nitidezza tutta sua) e sgorga invece spontanea a Nazaret, a conferma della forte devozione mariana che attraversa l’intera produzione di Dobraczynski. Certo, a volte lo scrittore sembra un po’ troppo interessato a difendere il dato di tradizione, come nel caso dell’infanzia di Maria a Gerusalemme (è la stessa leggenda accreditata da Fabrizio De André in un paio di canzoni della Buona Novella), ma non è mai il partito preso a prevalere. Nella terra di Gesù è semmai una meditazione condotta con gli strumenti della guida di viaggio, fatalmente non più aggiornata rispetto alla situazione attuale, ma non per questo meno godibile e affidabile. Nello stesso tempo, è un libro che non si sottrae alle istanze della contemporaneità. Dobraczynski si sofferma sulle contraddizioni della situazione geopolitica, con notazioni tutt’altro che prevedibili sul rapporto tra Stato di Israele e comunità palestinese. Un argomento sul quale lo scrittore si sente autorizzato a esprimersi con franchezza. Perché il suo libro d’esordio, Il cavaliere dell’Immacolata, era una biografia di Massimiliano Kolbe, tra l’altro. E perché lui stesso, Dobraczynski, era stato deportato dai nazisti a Bergen-Belsen a causa del coinvolgimento nell’insurrezione del Ghetto di Varsavia. Gerusalemme è una sola, ma il Golgota può essere ovunque.

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