«Guarda come sei diventato grande». Cinque parole banali – sei in inglese – che qualche nonno, vicino di casa, amico dice ogni giorno a forse ogni bambino della Terra. Ma se a pronunciarle è una madre, che non dovrebbe neanche accorgersi di quanto i suoi figli stanno crescendo, e se questa madre è appena tornata dalla guerra, allora la banalità diventa pugno nello stomaco. Ed è tutto subito chiaro. Così come nulla si deve aggiungere a «Sono un vulcano: violento e silenzioso», o a «Ancora perso nella polvere del deserto» per capire cosa è successo, e cosa sta succedendo. Migliaia di reduci dell’Afghanistan e dell’Iraq, con storie che fanno scendere involontarie lacrime di dolore e compassione a chiunque, che sia pro o contro la loro guerra, che abbia un familiare in battaglia o no, hanno accettato di raccontarle in sei parole. Non con la superficialità delle centoquaranta battute tipografiche di Twitter. Non con la pubblica, narcisistica denudazione di Facebook. Sei parole: il verso di una poesia, un’immagine. Il risultato è un racconto collettivo che la rivista "Smith", dedicata alla pubblicazione di racconti personali, ha raccolto in un’antologia. Non è l’unico progetto "in sei parole" che il periodico ha lanciato. C’e’ quello sull’amore, uno sull’America, e un altro sugli adolescenti. Ma "La guerra in sei parole" è di gran lunga l’iniziativa letteraria che ha colpito di più i lettori, trascinandoli in un’intimità a volte agghiacciante, a volte struggente, anche se degli autori non si sa niente, perché dietro le confessioni c’è sempre solo uno pseudonimo. «Vorrei che fosse tornato anche lui», dice Jamtur01. «L’anima è rotta, il cuore congelato», scrive Dmacdonald77. L’affresco della guerra (Falluja? Kandahar? Ha importanza?) continua riga dopo riga. E le si possono mettere tutte in fila, a formare un racconto epico, frammentato ma coerente. «Quello era il mio occhio buono. Non guardarmi con pietà. Sono così vicino, eppure così lontano. Prevedo momenti di silenzio, anni di tristezza. Perché tanta rabbia, ogni giorno? Perché è lunga la strada dall’inferno. Ma quand’è che mi sono perso? Ora l’anima è rotta, il cuore congelato». Il racconto è per lo pià un documento di sofferenza, ma rivela che se c’è ancora un po’ di speranza in quei cuori congelati, viene dalla quotidianità ritrovata. «Sei il mio regalo più grande. Mamma, sono a casa. Non volevi che andassi, hai aspettato». Oltre al dolore e al disperato desiderio di normalità, nelle sei parole moltiplicate per centinaia si percepisce anche lo sforzo di trovare un senso nell’esperienza di guerra e di riconciliare il nuovo sé con il vecchio sé, la persona che è partita con quella che è tornata. E la paura di non riuscirci. «Continuo a chiedermi perché. Leggo libri, parlo, non capisco. Sono in guerra con la mia mente. Sacrificato tutto, e ora… silenzio. Ho servito, è ora di riflettere. Siamo orgogliosi, aspettiamo, preghiamo». Anche scrivere sei parole allora può aiutare, senza paralizzare intimidire come buttar giù un diario, o parlare a un familiare troppo sopraffatto dalle emozioni per capire. «Sono piccoli ritratti, storie individuali non mediate da un articolo di giornale, con le quali tutti possono relazionarsi», spiega Larry Smith, fondatore della rivista e creatore del progetto. A fargli venire l’idea è stato il ricordo delle brevissime biografia delle vittime dell’11 settembre che il "New York Times" aveva pubblicato per mesi dopo la tragedia delle Torri gemelle. Niente più che di sketch, per lo più disegnati usando le parole dei morti, come le ricordavano amici e parenti. «Dopo l’11 settembre prendevo la metropolitana, e tutti erano lì seduti a piangere con il giornale aperto – continua Smith –. Questo è un modo simile di rendere viva un’esperienza collettiva fatta di migliaia di esperienze individuali, che aiutano a rendersi conto di cosa stanno passando i soldati tornati dall’Iraq e dall’Afghanistan». Soldati dei quali non si sa nulla al di là delle statistiche di quanti si tolgono la vita (il venti per cento di tutti i suicidi in America ogni anno sono reduci di guerra), di quanti finiscono arrestati (il sedici per cento), e di quanti divorziano, uccidono, spariscono. Cosa rimane infatti piu’ù stampato nel cuore: che più della metà dei reduci dell’Iraq e dell’Afghanistan soffrono di sindrome da stress post-traumatico o la domanda, in sei parole: «Quando finiranno gli incubi?». E cosa terrorizza di più, pensare a quante vite sono andate perse, da entrambe le parti del fronte, o leggere: «Non li volevo uccidere, non volevo»? O: «Con i miei occhi, li ho visti morire»?