martedì 14 aprile 2020
Da Baudelaire a Umberto Eco, fino a papa Francesco e al suo “Dio ride"; da secoli l’uomo riflette sul rapporto tra divinità, testi sacri e comico. Uno studio indaga il tema dal punto di vista storico
Una vignetta per Avvenire di Paolo Del Vaglio

Una vignetta per Avvenire di Paolo Del Vaglio - archivio Avvenire

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«Flevisse lego, risisse numquam»: il famoso detto medievale ben esprime un’idea codificata su Gesù. L’assunto in realtà – dovuto con tutta probabilità ad Ambrogio di Autperto, abate di San Vincenzo in Volturno, morto nel 784 – sembra pescare direttamente dai Vangeli, ove non c’è traccia che Gesù abbia riso, mentre più volte c’è il racconto delle sue lacrime, dall’episodio della morte di Lazzaro o alla Passione.

È vero che Gesù amava la compagnia dei discepoli, mangiava e beveva con loro e non disdegnava il ristoro. Eppure, non una riga compare nel Nuovo Testamento sul suo riso; molti autori se ne sono occupati, da Baudelaire a Umberto Eco. Il poeta francese elaborò una teologia negativa del riso proprio a partire dal fatto che «il Saggio per eccellenza, il Verbo incarnato, non ha mai riso. Agli occhi di Colui che sa tutto e può tutto, il comico non esiste». Ne deriva forse che il comico è inferiore al tragico? Così pareva pensarla Umberto Eco, in un articolo sulla rivista “Alfabeta” del 1981 che fece adirare Beniamino Placido nella sua prefazione alla nuova edizione del famosissimo saggio Il riso di Bergson (Laterza 1982). Lo stesso Eco su questo dilemma incentrò Il nome della rosa.

Sorge allora spontanea la domanda: ai cristiani piace più piangere che ridere, lamentarsi che sorridere? Il tema si riaffaccia in maniera niente affatto scontata, anzi direi onesta e intelligente, in un libro da poco edito dal Mulino, Ridere degli dèi, ridere con gli dèi (pagine 242, euro 22), di cui sono autori l’antropologo Francesco Remotti, il classicista Maurizio Bettini e l’orientalista Massimo Raveri. Certo, i tre studiosi mostrano di prediligere le forme politeiste della religione, rispetto a quelle monoteiste, per quanto riguarda la relazione fra il sacro e l’umorismo: quelle che Remotti nell’introduzione definisce joking religions, “religioni scherzose”, accomunando l’antichità greco–romana a certi culti delle religioni africane e orientali. E qui senza dubbio vi sono dissonanze rispetto all’impostazione cristiana. Scrive Bettini nel suo saggio: «Questi Greci e Romani che potevano ridere dei propri dèi – e quindi non censuravano, punivano, tanto meno uccidevano chi lo avesse fatto – mostrano di avere qualcosa di molto concreto da insegnare oggi a culture e società che inclinano a reprimere con la violenza l’umorismo teologico ovvero il comico divino». Il riferimento va soprattutto al fondamentalismo islamico dopo l’eccidio parigino di “Charlie Hebdo”.

Quelle antiche per Bettini erano divinità vicine all’uomo, talmente vicine da non escludere che si potesse ridere di loro. Un’affermazione in parte condivisibile ma anche criticabile se si pensa ai comportamenti della corte di Zeus, del tutto simili a quelli umani tanto da essere messi alla berlina da Socrate e non solo da sant’Agostino.

Ha scritto il poeta Charles Péguy che «gli antichi non hanno avuto gli dèi che si meritavano», a voler significare che la civiltà greca soprattutto, con la grandezza della sua arte e della sua letteratura, ha subito un tragico destino, sottoposta ad un cielo goffo e ridicolo o gonfio di maledizione, davanti a cui gli uomini restavano innocenti. Lo diceva anche Simone Weil, per la quale «Dio non avrebbe dato il suo unico Figlio al mondo se il mondo non l’avesse chiesto». Il formalismo delle religioni pagane («gli dei falsi e bugiardi» di Dante) escludeva coinvolgimenti totali da parte dei fedeli e persino le religioni misteriche, che si affermarono poco prima e a volte contemporaneamente al culto cristiano, puntavano più sul sentimento e sull’emozione che sulla pietà interiore. Niente conversioni nel mondo antico, almeno a livello religioso (tranne l’unica eccezione letteraria di Lucio nell’Asino d’oro di Apuleio), semmai esse si verificarono in ambito filosofico (si pensi ancora a Socrate o ai cinici).

Annota Remotti nella sua introduzione che vi sono solo quattro casi nell’Antico Testamento in cui Dio ride, tre nei Salmi e una nei Proverbi, però si tratta di episodi in cui Yahweh, più che ridere, deride l’uomo o il suo popolo, come segno della sua superiorità. Ma è altrettanto vero che nell’ebraismo la tradizione dell’umorismo è ricchissima: si potrebbero fare numerosissimi esempi della letteratura anche recente.

Parimenti, come si diceva all’inizio, va riconosciuto che, se prendiamo la storia del cristianesimo, l’umorismo e il riso non hanno mai abbondato moltissimo. Si può anzi ammettere che, assieme alla mistica, siano stati territori poco frequentati, quasi una strada parallela alla dottrina ufficiale, tollerata con difficoltà. Il rapporto fra il cristianesimo e il riso è esplorato nel libro con ampi riferimenti alla teologia del ‘900 che, da Hugo Rahner a Harvey Cox, ha cercato di introdurre nuovi elementi per una visione più positiva.

Si evidenzia un processo di umanizzazione rispetto ai secoli precedenti, che porta a privilegiare la tendenza a “ridere con”: se non è possibile ridere di Dio, si può invece ridere con Dio: una forma di umorismo teologico esemplificata da un recente libro di papa Francesco, intitolato appunto Dio ride, che ha l’intento di evidenziare il lato gioioso e lieto del cristianesimo, non solo serio e tragico. E vale la pena citare due casi in cui trapela la possibilità, anche in ambito ebraico–cristiano, se non di ridere almeno di sorridere di Dio: innanzitutto il famoso passo di Abramo e Sara cui il Signore annuncia che avranno un figlio cui verrà dato il nome di Isacco, che significa “lui ha riso”. La reazione di Dio al riso dei due coniugi è di rimprovero e Abramo se ne pente. Ma quando nasce Isacco, Sara torna sul tema e dice: «Un sorriso ha fatto Dio per me!», interpretando la nascita come un dono gioioso, e la Bibbia ebraica traduce così la frase: «Dio mi ha dato di che ridere». La vicenda racchiude insomma – lo rileva il sociologo delle religioni Peter Berger – tutt’e tre i significati del riso di Dio: prima Abramo e Sara ridono di Dio mettendo in dubbio il suo potere; poi Dio ride di loro e li rimprovera; infine Sara ride con Dio per la nascita del figlio.

Un racconto davvero emblematico così come quello della creazione nel Discorso sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola: quando arriva il momento di creare l’uomo, Dio si accorge di non avere più risorse disponibili e affida alla creatura stessa la capacità di autoplasmarsi. Anche qui si trova una vena di umorismo, o di auto–umorismo di Dio. L’umorismo, la capacità di ridere di se stessi, è infatti una delle risorse del credente, come hanno rilevato scrittori come Amos Oz e Milan Kundera. Il quale giustamente se l’è presa con gli agelasti e, a proposito del romanzo europeo, ne ha messo in luce lo humour scrivendo: «Dice un bellissimo proverbio ebraico: L’uomo pensa, Dio ride. Mi piace immaginare che Rabelais abbia udito un giorno la risata di Dio e che sia nata così l’idea del primo grande romanzo europeo. Mi diverte pensare che l’arte del romanzo sia venuta al mondo come eco della risata di Dio».

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