domenica 24 settembre 2017
A colloquio col prefetto Cesare Pasini: «Sono 80 mila i manoscritti in via di informatizzazione. Accogliendo studiosi da tutto il mondo e con iniziative internazionali si fa diplomazia della cultura»
Il prefetto Pasini: Biblioteca Vaticana, la tradizione passa al digitale
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«I manoscritti in Vaticana sono 80.000. Bastano per costituire un grandissimo progetto, che ci sta occupando da una decina d’anni e che richiede un impegnativo sforzo organizzativo e finanziario. Speriamo, con l’aiuto di molti, di poter proseguire più speditamente. Per ora abbiamo digitalizzato circa il 15 per cento». Attraverso il percorso di digitalizzazione dell’immenso patrimonio della Biblioteca apostolica vaticana «desideriamo esprimere – spiega il prefetto, Cesare Pasini – con strumentazioni nuove, lo spirito di sempre. Se la Vaticana è aperta e universale, è meraviglioso che si possa rendere presente in ogni luogo con le riproduzioni digitalizzate dei propri libri. Di fatto il progetto in corso riguarda i mano-scritti, che sono libri 'unici'. Gli stampati sono abitualmente presenti in varie copie nelle differenti biblioteche».

Che senso ha per la Vaticana di oggi digitalizzare i propri libri?

«È bello pensare che anche in questo modo dialoghiamo con tutte le persone che si accostano a quei manoscritti: molti materiali sono per specialisti, e siamo contenti di facilitare loro lo studio; altri sono splendidi esempi di volumi miniati, e nella loro bellezza, avvincono coloro che li ammirano. Si crea un dialogo a distanza e si conferma un servizio universale».

Nata a metà quattrocento, a distanza di sette secoli come sta la Biblioteca vaticana?

«Sono stati secoli di attività e accoglienza a numerosissimi studiosi, di aggiornamento nelle modalità e strumentazioni di servizio, di arricchimento delle collezioni conservate. La vita si evolve, ma alcuni aspetti, quelli di fondo, non cambiano, anzi. La nostra radice è l’Umanesimo e il suo spirito si mantiene intatto nella Vaticana ».

Qual è l’importanza oggi dello «spirito dell’Umanesimo»?

«È la riscoperta degli antichi scrittori, classici e cristiani condotta con criterio. I testi riscoperti nei manoscritti furono accostati con attenzione e pazienza, per capirli bene, affiancandoli ad altri scritti, per confrontare fonti e documentazioni, mettere in relazione gli uni con gli altri (non sempre pacatamente, a volte polemicamente). Si sapeva di non poter avere tutto e subito: scavare, conoscere, capire richiede tempo, energie, ascolto, disponibilità; apprendere richiede umiltà e sforzo per non procedere isolatamente. Per dirlo in modo diverso, la verità non si raggiunge a colpi di slogan o compiacendo mode e ascoltatori, ma con una 'ascesi', un allenamento a un gioco di squadra. Il frutto della ricerca della verità non è mai tuo o mio, ma nostro, una conquista collettiva a beneficio di tutti. Solo così si conosce l’uomo e si costruisce la civiltà. Lo spirito dell’Umanesimo è uno spirito di ricerca umile e laboriosa e di confronto aperto».

Spirito di dialogo, dunque?

«Non so se gli umanisti usavano il termine, ma di certo lo praticavano. I ricercatori, che sono venuti in Vaticana nel corso dei secoli e tuttora, hanno sperimentato questo spirito eredità dell’Umanesimo, apprezzandolo. Non sempre pienamente e pacatamente: la storia della biblioteca e degli studiosi conosce tensioni e contrapposizioni, freni e incomprensioni, ma il succo della ricerca sta nel dialogo e i frutti raccolti sono condivisi. Non sto parlando solo delle ricerche più raffinate, storiche, filologiche o scientifiche, ma di uno stile, di una sensibilità: ciò che hai cercato bene, porta lucidità nella comprensione, valutazione e approfondimento, che reca frutto alla società e ai rapporti che in essa si instaurano».

Vorrebbe dire che lo spirito umanistico può diventare strumento per affrontare le questioni, semplici o gravi, del nostro tempo?

«Rispondere: 'Sì, certo!' Sarebbe una semplificazione. Però qualcosa, sì. Con un pizzico di autoreferenzialità che spero ci verrà perdonato, in Vaticana sperimentiamo e attuiamo la 'diplomazia della cultura'. Perché l’autentica cultura, nella lettura umanistica dello spirito di dialogo, si apre all’universalità: supera le barriere di lingue, aree geografiche, nazioni, razze e ideologie. La biblioteca, tempio di silenzio, è, insieme, pun- to di incontro fra persone di ogni continente, razza, religione».

Cos’è in concreto la 'diplomazia della cultura'?

«La diplomazia cerca di costruire ponti, anche là dove sembra difficile trovare un’intesa. La cultura ispirata dall’Umanesimo trova vie di intesa, collaborazioni culturali, là dove altre strade sembrano precluse. Grazie a progetti concreti si realizzano cooperazioni serene e proficue, spesso su questioni 'spigolose': ad esempio, quella in corso da anni con istituzioni culturali giapponesi in merito a documenti conservati in Vaticana (raccolti negli anni Trenta dal salesiano Mario Marega) concernenti le persecuzioni di cristiani nel Giappone del Seicento e Settecento e di parte dell’Ottocento nella provincia di Oita (nel sud del Giappone). È una impresa comune, che prevede il restauro e la digitalizzazione di questi documenti, e, soprattutto, il loro studio, consentendo una maggiore conoscenza di quell’ambiente e di quel momento storico. Il lavoro condiviso più facilmente supera i contrasti della storia. Un simile intento era sotteso all’incontro svoltosi in Vaticana per la simbolica restituzione del bastone di comando che nel 1574 fu sottratto in battaglia dagli spagnoli agli insorti nederlandesi e poi conservato per lungo tempo a Barcellona. La Biblioteca vaticana ha ospitato l’evento, che ricordava una guerra cruenta e situazioni dolorose di contrapposizione religiosa: ora, nel luogo della 'diplomazia della cultura', si testimoniava piuttosto il rispetto reciproco e l’armonia della pace. Analogamente con la Repubblica popolare cinese la Vaticana ha in corso una sostanziosa collaborazione, per digitalizzare e ristampare in forma anastatica alcune centinaia di volumi cinesi, talora copie uniche, conservati in biblioteca: il progetto, voluto dal governo di Pechino, si inserisce nell’ambizioso programma di raccolta e di studio della documentazione utile a ricostruire la storia della dinastia Qing».

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