sabato 15 maggio 2010
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Esiste ancora la critica militante? Le cassandre di turno giurano che è morta. E in effetti non sembra in buona salute. Allora, conviene cominciare dalla fine, dalle ultime battute del convegno che si è tenuto ieri al Lingotto sullo stato di questa gloriosa e giovane arte letteraria. Cioè quando Alfonso Berardinelli, uno dei protagonisti della tavola rotonda organizzata da Avvenire, ha detto senza tanti giri di parole: «Se dobbiamo guardare a quanto è successo pochi giorni fa, potremmo essere costretti ad ammettere che le sorti della critica sono tragiche. Alludo alle recensioni che Asor Rosa e Cesare Segre hanno dedicato all’ultimo libro di Eugenio Scalfari, vendendolo come un testo fondamentale per la cultura contemporanea. Le recensioni di questi due critici militanti, una pessima e l’altra mediocre, testimoniano quantomeno che cosa non è la critica». Al che uno si aspetterebbe che dal tavolo dei relatori venga un’attenuazione dei toni. Macché, a rincarare la dose è Angelo Guglielmi: «È quel che è accaduto anche con l’ultimo libro di Walter Veltroni: recensioni così non hanno niente a che fare con la critica». Palla al centro, ovvero torniamo all’inizio dell’incontro: quando si parla di critica militante si pensa subito alla zuffa, agli scontri all’arma bianca, ai partiti presi. E in effetti, la critica militante è anche questo. Ne era maestro Giuseppe Bonura, il critico letterario del nostro giornale, scomparso nell’estate del 2008, nel cui nome si è tenuta la prima edizione del premio per la «critica militante». Nell’aprire il dibattito che si è tenuto ieri al Salone Ernesto Ferrero ne ha elogiato la libertà intellettuale «in un Paese dove tutti pensano di avere la verità in tasca, spesso però senza disporre delle necessarie pezze d’appoggio». La prima edizione del Bonura ha premiato Tzvetan Todorov, teorico e critico letterario, che – come ha detto Roberto Righetto, caporedattore della sezione Agorà di Avvenire – «ha indagato a fondo gli autori del Novecento che si sono cimentati con la questione del male e ha saputo valorizzare quelle pagine letterarie che, come contraltare, hanno celebrato la possibilità del bene e il rispetto dell’altro». Al tavolo dei relatori anche Ermanno Paccagnini e il moderatore Alessandro Zaccuri, che ha curato il libro di Bonura "L’industria del complimento" (Medusa), dov’è raccolta parte degli articoli che il critico ha pubblicato su Avvenire tra 1999 e 2008. Per dire se esiste la critica militante occorre sapere di che cosa parliamo. Così Berardinelli ha pensato bene di stendere una sorta di rapido decalogo. Questa critica – ha detto – esiste finché qualcuno ha l’occasione di esercitarla. Il critico militante non è un recensore, è uno che scrive a puntate un romanzo intellettuale che racconta il presente. Il critico scrive di letteratura ma il suo obiettivo è qualcosa di diverso dalla letteratura. Scrive sapendo che ciò che dice è discutibile, e sa anche che più ha rapporti diretti con l’ambiente letterario, meno è libero da vincoli. Il critico militante in tre paginette dice ciò che l’accademico non riesce a dire in 300. La critica è il sistema endocrino che presiede al buon funzionamento del corpo letterario. Il vero critico è senza potere, ma è necessario all’ecologia della letteratura. Insomma, «il critico è un intruso» (e talvolta un guastafeste: ma a fin di bene).Tocca a Guglielmi, che preferisce invece testimoniare come ha esercitato la critica per circa cinquant’anni. Troppo spesso – ha detto – fra critica, autore e pubblico esiste oggi un patto di utilità commerciale. La critica serve alla diffusione del libro: vince la dialettica del mercato. Fino a ieri la critica serviva il pubblico, ma oggi la critica deve servire l’autore. È un modo, quello praticato da Guglielmi, per rompere il circolo vizioso: autore-pubblico-mercato. «Io evito di giudicare, mi limito a esaminare l’articolazione del libro, il suo progetto, e verifico dove tiene, dove vi sono cadute oppure derive volontarie, e faccio questo pensando di essere utile alla consapevolezza dell’autore (si sa che gli autori non sanno bene che cosa hanno scritto)». Quello di Guglielmi assomiglia molto al metodo dello psicoanalista: «In effetti la letteratura è la forma più efficace di critica della realtà, mentre gli scritti del critico devono essere "servili"». Ermanno Paccagnini ha stigmatizzato invece la tendenza giornalistica ai piagnistei estivi: «Quando arriva l’estate ecco che il giornale ti chiama e ti chiede di imbastire un pezzo dove si dica che la critica è morta, il romanzo sta male e la poesia è scomparsa. Un vero critico dovrebbe rifiutare di stare a questo gioco». Quanto alla provocazione lanciata da Berardinelli, Paccagnini ha replicato che «la critica accademica dovrebbe curare e rimettere in circolazione testi rilevanti ma trascurati magari dall’editoria e dai media. Mentre il critico militante è uno che cammina sul filo sfidando il vuoto senza rete. È anche lui un lettore, ma con in più la responsabilità di mettere su carta le idee che ha maturato leggendo». Una cosa è certa: ieri a Torino nessuno scontro all’arma bianca, ma una pacata discussione per rinnovare la scommessa di sempre: la critica militante esiste, basta saperla (volerla) fare.
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