martedì 9 novembre 2010
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Approdano in libreria i controversi Diari di Benito Mussolini, che per meglio dire dovrebbero essere chiamati «i diari di Marcello Dell’Utri», a causa dello stretto legame che questi apocrifi hanno via via assunto con il senatore grande sponsor delle famose cinque agende che sarebbero state vergate dal Duce, tra il 1935 e il 1939. «Diari di Dell’Utri», dunque, nel senso che la forte personalità del detentore dei documenti ha condizionato tutta quanta l’operazione di «emersione» editoriale di queste carte, finendo addirittura per oscurarne i contenuti. Bompiani pubblica ora la prima annata di quei diari, quella del 1939: uno zibaldone che sfiora le mille pagine, offrendo la trascrizione integrale del testo manoscritto, con la riproduzione anastatica degli autografi originali. Ma – sorpresa – perfino l’editore mette le mani avanti e, già dal titolo, enuncia che si tratta dei Diari di Mussolini, veri o presunti. Che significa? Neppure Bompiani è sicura della genuinità di questo documento, per il quale nessuno storico ha sottoscritto un certificato di autenticità? Parrebbe di sì. Insomma, siamo di fronte a una spregiudicata operazione di marketing editoriale, per cui si lancia un prodotto privo del necessario avallo veritativo? Verrebbe da chiedersi se, sfruttando come una gallina dalle uova d’oro le 5 agende, Bompiani – che, ricordiamo, è parte della costellazione dell’impero editoriale Rizzoli – non finirà per doverle tirare il collo. Ma stiamo ai fatti e riassumiamo i punti dell’annosa diatriba. Marcello Dell’Utri, nel febbraio 2007, dichiara di detenere cinque agende manoscritte mussoliniane e si dice convinto della loro autenticità. Da quel momento, il senatore bibliofilo accarezza i documenti come un balocco, e si adopera per la loro pubblicazione. Oggi il materiale è diffuso a stampa. Ma siamo sicuri che ciò basterà a rendere «più veri» e attendibili questi benedetti «diari»? La nostra impressione, dopo aver ulteriormente approfondito la conoscenza di tali documenti, analizzando ciò che vien pubblicato, è che si tratti certamente di falsi. E nemmeno di «falsi d’autore», nel senso che riesce difficile immaginare un Mussolini «copista» e traditore di sé stesso, un Mussolini che durante la guerra (e dunque a distanza di anni dalla datazione delle agende e dagli avvenimenti ivi narrati) s’impegna strenuamente nella stesura di un documento fasullo con intenti apologetici e auto-assolutori della sua condotta politica. Il Duce invece (ma questo è noto) intendeva affidare la sua difesa dinanzi alla storia ai carteggi di Stato, che avrebbero rivelato le reali cause ed origini del secondo conflitto mondiale. Dall’esame dei contenuti dei cosiddetti Diari di Mussolini, emergono infatti ulteriori conferme dell’assoluta inattendibilità di questo documento. Gli stessi apparati critici prodotti all’interno del testo, a cominciare dall’introduzione al volume del 1939, non aiutano certo il lettore a orientarsi meglio in questo pasticcio editoriale all’italiana, che all’estero non sarebbe nemmeno concepibile. L’introduzione, per quanto estesa, omette di ricordare molti aspetti delle indagini esperite negli anni passati, e che hanno condotto molti storici a pronunciarsi contro l’autenticità del documento. Senza voler minimamente ripetere le obiezioni che sono state mosse da storiografi quali Emilio Gentile, Luciano Canfora e altri, varrebbe la pena di sottolineare come il «presunto Mussolini» che emerge da queste pagine sia un uomo talmente intimista e piccolo borghese, da indurci più di un sospetto e di una cautela. Di ciò si hanno moltissime prove. Il Diario 1939 risulta così ispirato, in modo esplicito o implicito, alle altre fonti (dai giornali dell’epoca ai Diari – quelli, sì, veri – di Galeazzo Ciano), da essere un falso di palmare ed imbarazzante evidenza. A ulteriore esempio, osserviamo che il documento non contiene alcun riferimento allo scambio epistolare intercorso tra il Duce e il premier inglese Neville Chamberlain, alla fine del luglio 1939. Si era ormai alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale. Possibile che, redigendo in bella copia il suo racconto quotidiano degli eventi, Mussolini potesse omettere qualunque riferimento a una tale, importantissima corrispondenza? A noi pare si possa assolutamente escludere. Non si può credere che Mussolini possa annotare, sia pure in un diario, una frase lapidaria come questa: «Io sono contro le leggi razziali». E stonano riferimenti a un codice cavalleresco («I forti non annientano mai i propri nemici. Anzi, non li considerano nemmeno tali») che il Duce non aveva. Se si vanno a rivedere i testi dei suoi colloqui con Yvon De Begnac (Taccuini mussoliniani, Il Mulino), che sono coevi, si trova che il dittatore rimproverava a Roberto Farinacci «l’irrazionale pietà per il vinto», che derivava dall’istinto di vecchio socialista del ras di Cremona. Ancora: Giuseppe Bottai viene definito «il marxista del fascismo», cioè il demiurgo di una cultura totalitariamente asservita al regime. Ma a De Begnac, Mussolini dice il contrario, lamentando il fatto che Bottai stesse «sottraendo del tutto» gli intellettuali della fronda al «controllo politico del partito». Un fatto è certo: chiunque abbia concepito e costruito questa «fabbrica del falso ideologico», certamente lo ha fatto con finalità di riabilitazione postuma del capo del fascismo.
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