venerdì 5 agosto 2022
La poetessa Premio Pulitzer 2022: «Il mio lavoro ricolloca lo spirito ribelle urbano negli spazi rurali». La figura del padre scomparso si intreccia a quella di Gesù e agli outsider della Rust Belt
Un paesaggio rurale nella Rust Belt

Un paesaggio rurale nella Rust Belt - Mark Spearman/Flickr/CC-By-2.0

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A maggio Diane Seuss ha ricevuto il Premio Pulitzer per la poesia grazie a frank: sonnets (Graywolf Press), definita «una raccolta virtuosistica che espande in modo inventivo la forma del sonetto per affrontare le caotiche contraddizioni dell’America contemporanea, inclusa la bellezza e la difficoltà della vita della classe operaia nella Rust Belt». La silloge racconta, infatti, la realtà rurale del Michigan e mette in rilievo gli outsiders, le persone ai margini, oltre a ricordare la figura del padre e dare largo spazio alla presenza di Gesù. La lingua, tutt’altro che petrarchesca, si sviluppa in versi lunghi, corruschi, zeppi di flussi mnestici. Seuss, nata in Indiana e cresciuta nel Michigan, è professoressa emerita al Kalamazoo College e autrice di cinque libri di poesia ( La ragazza dalle quattro gambe è stata recentemente tradotta da Alessandra Bava e Maria Adelaide Basile per Ensemble, pagine 192, euro 15,00). Guggenheim Fellow nel 2020, seguace di Frank O’Hara e Amy Winehouse, Seuss è una donna cordiale, irresistibilmente “franca”, convinta che il sonetto sia una specie particolare di “povertà”, poiché «insegna ciò di cui si può fare / a meno».

Professoressa, frank: sonnets è innanzitutto un’autobiografia.

«Sì, è un libro di memorie composto da sonetti contemporanei. Per “sonetti contemporanei” intendo che ognuno di essi mantiene l’assetto formale del sonetto classico: tutti hanno quattordici versi; la maggior parte presenta il distico; e molti conservano la rima, anche se non nella parte finale, e il metro, sebbene non necessariamente il pentametro giambico. I componimenti variano parecchio nel contenuto. Alcuni sono brevi narrazioni. Altri sono assai più vicini al testo di una canzone. Due liriche sono così articolate da trovarsi in un paginone centrale che si apre a metà del libro. Le poesie guardano alla mia storia personale, sì, ma contengono anche frammenti di storia letteraria e filosofica. Sono rivolte tanto al modo in cui ricordiamo quanto agli stessi ricordi. Frank: sonnets è frutto del paesaggio in cui sono cresciuta e dalle radici operaie della mia famiglia».

Nel libro compare, talvolta, anche Gesù. Che significato ha per lei?

«Gesù è presente nel mio lavoro sin dalle prime poesie, ma non da una prospettiva cristiana tradizionale. Quando ero molto giovane, appena una bambina, vivevamo in un piccolo villaggio. Vagavo di chiesa in chiesa la domenica, benché i miei genitori non seguissero la messa e non mi incoraggiassero – né mi scoraggiassero – ad andarci. Qualcosa mi attirava lì. Forse era il mistero. Ero curiosa. Ho percepito Gesù come figura del mistero sin dai miei primi giorni. Mio padre si ammalò e morì quando avevo sette anni. La sofferenza e la morte di Gesù, visivamente, iconicamente, hanno risuonato per me in stretta connessione con la morte di mio padre. Suppongo si possa dire che ho una relazione con Gesù basata sulla metafora piuttosto che sulla teologia».

In Still Life with Two Dead Peacocks and a Girl (Graywolf Press, 2018; "Natura morta con due pavoni morti e una ragazza") c’è una certa aderenza tra poesia e arte figurativa. Ritiene che siano due tipologie espressive similari?

«Sono felice che lei abbia menzionato Still Life, poiché è stata una delle esperienze di scrittura più belle della mia vita. Fui attratta dall’argomento della pittura di nature morte in un sogno. Mi sono svegliata con le parole “natura morta” scritte nell’oscurità dietro ai miei occhi; così mi sono alzata dal letto e ho iniziato a fare ricerche. L’arte visiva mi ha sempre interessato. Ero una studentessa di storia dell’arte al college e ho sempre amato guardare e leggere l’arte. Infatti, da adolescente, io e un amico (il ragazzo che è sulla copertina di frank: sonnets) prendevamo un treno low cost dalla nostra città natale al meraviglioso Art Institute di Chicago, a un centinaio di miglia di distanza, soltanto per restare a bocca aperta davanti ai quadri esposti. Dopo il mio sogno, mentre osservavo la pittura di nature morte, ho iniziato a generare correlazioni tra il contenuto domestico dei dipinti e la famiglia della classe operaia da cui provengo, incentrata sulla donna. Quindi, il sogno ha portato alla ricerca, e il semplice guardare le opere nei libri e online è diventato un percorso per pensare a quei legami personali. Come Visiting Professor, ho avuto la fortuna di risiedere in una magnifica isola a Puget Sound, al largo della costa di Washington, e tutto ciò mi è sembrato un eden, un paradiso. Giardini bellissimi e lussureggianti. Profumo di lavanda. Conigli che rosicchiano le erbe nei prati. Montagne, mare e cielo. Ciò ha dato adito a una riflessione sul privilegio. Perché io ho avuto la fortuna di vivere in un paradiso, e non mia madre, né mia sorella? E così anche le idee sulla bellezza dell’arte contro la sua esclusività si sono fatte strada in quella silloge. Insomma, a mio giudizio, l’arte visiva o figurativa è collegata alla poesia attraverso la profondità dell’immagine, e anche grazie al fatto che nessuno dei due mezzi è in definitiva illustrativo. Poesie, dipinti e sculture non possono essere ridotti a un significato univoco. C’è sempre il mistero».

Come ha anticipato, nelle poesie ritorna spesso suo padre. Che ruolo ha avuto nella sua vita?

«Non credo che scriverei poesie senza mio padre o senza la sua assenza. La sua malattia e morte, e il vuoto e le incognite che hanno lasciato, sono ciò che ha stimolato il bisogno, in me, di scrivere. Conosco pochissimi artisti di qualsiasi tipo che non abbiano subìto una perdita durante l’infanzia. L’immaginazione si accende per necessità. Come persona, mio padre era gentile. Un uomo gentile, ma non debole. Era un consulente di orientamento per gli studenti. Era il lavoro che amava e non voleva andarsene così presto. Per quanto la sua assenza abbia avuto un impatto su di me, la presenza di mia madre è stata altrettanto importante. Andò all’università dopo la morte di mio padre e finì per studiare letteratura. È stato certamente un meccanismo di sopravvivenza. Aveva bisogno di una via per guadagnarsi una carriera e supportare me e mia sorella, ma aveva anche bisogno di qualcosa che le occupasse la mente. Non le era stato permesso di frequentare il college quando si era diplomata al liceo, poiché all’epoca si credeva che le donne non avessero necessità di istruirsi. Il suo impegno per la sopravvivenza dopo la morte di mio padre è stato potente e iconico quanto l’attuale assenza di mio padre. Voglio aggiungere che quando parlo di mio padre nelle poesie, non è solo mio padre – il mio padre autobiografico – ma il padre archetipico, che tutti condividiamo».

In una circostanza ha detto che il suo lavoro può essere definito “punk rurale”. Cosa intende?

«Ah, bella domanda! Tendiamo ad associare il punk a un’estetica urbana, in particolare musica, scrittura, danza, arte visiva, film che si rivelano crudi, anticapitalisti, ribelli al conformismo, primordiali, simbolicamente autosacrificali, contrari alle costruzioni restrittive della bellezza e del comportamento appropriato... Ho vissuto nel regno della cultura punk a New York tra la metà e la fine degli anni ’70. Il mio lavoro ricolloca la mentalità punk negli spazi rurali. C’è molta restrizione nella vita di provincia in America, ma c’è un qualcosa – e sto ancora cercando di concentrarmi su di esso – che è incorreggibile e sfrenato. Io sono stata piuttosto incorreggibile e sfrenata crescendo in una zona rurale, come lo era stata mia madre nella sua adolescenza. Ad esempio, una volta lei ha camminato all’indietro, senza scarpe, intorno a un laghetto nel suo villaggio e ha accidentalmente calpestato un serpente, che le ha avvolto una gamba e l’ha morsa. Nessuno le avrebbe creduto, se non avessero visto i segni della ferita. È uscita dalla finestra della sua classe il primo giorno di scuola, è corsa dal barbiere di suo nonno e si è fatta tagliare tutti i capelli, poi è tornata a casa. È stata un tipetto piuttosto punk, credo. Costretta a cucinare il pranzo per i ragazzi del liceo, ha gettato nella zuppa un pacchetto di forcine. Esiste una mentalità ribelle in alcuni di noi che vengono dalla periferia, una mentalità punk, espressa in maniera meno convenzionale di qualsiasi altra cosa che ho incontrato nell’East Village di New York City».

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