mercoledì 14 agosto 2013
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«Come dice una persona a me vicina, la parola conduce, ma l’esempio trascina...». È il primo pensiero forte che Francesco Magnanelli, capitano e bandiera del Sassuolo neopromosso in Serie A comunica al giornalista di “Sport Voetbal Magazine” Geert Foutre, arrivato da Bruxelles per toccare con mano il “miracolo” del club modenese. Quella frase imperiosa di Giulio Cesare, sintetizza la filosofia esistenziale, prima che sportiva, del condottiero del club del presidente di Confindustria, patron Giorgio Squinzi: il “mister” Eusebio Di Francesco. Nel ritiro di Carpineti (appennino reggiano) Di Francesco, 44 anni, si aggira pacato e riflessivo dietro ai suoi occhialini, asciutto nel fisico come ai tempi in cui era il “Turbo” del centrocampo della Roma. Quella della stagione tricolore 2000-2001 di Fabio Capello. Eusebio stava lì in mezzo al campo a lavorar palloni per Batistuta e Vincenzo Montella, «siamo cresciuti assieme all’Empoli, il nostro miglior tecnico in questo momento», e il «gemello» Damiano Tommasi detto “anima candida”. «Vicino a Damiano mi sono sempre sentito un peccatore...», dice ridendo Di Francesco.Eppure lei nell’ambiente passa per una mosca bianca, addirittura per un fine “intellettuale”?«Sarà l’occhiale? – sorride –. A dir la verità non mi piaceva studiare, ho cambiato tre scuole prima di mollare in seconda ragioneria. Però, grazie ai tanti ritiri vissuti da calciatore ho letto molti libri e mi posso considerare un autodidatta. La mia vera base culturale è aver assorbito come una spugna i valori forti e autentici che mi ha trasmesso la famiglia».Rispetto a quando scendeva in campo cosa è cambiato nel calcio?«È diminuita la distanza tra l’allenatore e il calciatore. L’aspetto psicologico e motivazionale ora va di pari passo con quello tecnico-tattico e penso che questo sia l’aspetto più evidente dell’evoluzione della “specie calcistica”».Un aspetto positivo. E i punti dolenti del sistema?«Parecchi, a cominciare anche dalla cattiva informazione, la scarsa competenza di una stampa tifosa, troppo schierata. Le conferenze spesso diventano chiacchiericcio. Ridurre tutto il calcio a numeri e a tecnicismi forzati è sbagliato quanto parlarne solo in relazione al gossip e al giudizio superficiale sui singoli protagonisti».È una visione molto etica, anche lei come Prandelli con la Nazionale ha dato un “codice” al Sassuolo?«Se lo sono dati i calciatori da soli. Le prime dieci regole sono loro, io se serve metto l’undicesima. Ma più che codice etico lo chiamerei di “rispetto”, verso se stessi prima di tutto e poi per gli altri: la società, l’arbitro, gli avversari e non ultimi i tifosi».E sta funzionando il vostro “codice di rispetto”?«La passata stagione abbiamo avuto solo 3 espulsioni, di cui due per somma di ammonizioni. Siamo riusciti ad azzerare gli episodi di simulazione e non solo in partita, ma anche in allenamento. Il messaggio è chiaro a tutti: puoi ingannare una volta l’arbitro, ma alla seconda si riguarda il filmato e capirà che sei un simulatore sistematico, soggetto in fuorigioco rispetto al professionista serio».Codice esemplare, niente cartellini rossi, zero simulazioni, ma lei allena dei ragazzi perfetti.«È un grande gruppo in campo, con i difetti e i tic dei ragazzi di quest’ultima generazione. Passano troppo tempo davanti al computer ed è scientificamente provato che prima della gara fa calare la tensione e l’attenzione agonistica. Gli chiederei meno playstation e senza passare per bacchettone, anche meno tatuaggi. Non giudico chi se li fa, ma gli dico anche che l’originalità oggi sta nell’avere una pelle pulita, senza tattoo».Altre regole inderogabili nel codice Di Francesco?«La puntualità e l’educazione. Chi sgarra nei confronti dei compagni sa che pagherà una multa che poi andrà per scopi solidali. Se non sei capace di dire buon giorno e buona sera al vicino di casa non sarai mai un uomo vero fuori e, quindi, neppure un campione in campo. Se un tifoso viene e ti chiede un autografo devi essere disponibile, perché verrà il giorno che rimpiangerai tutta quella gente e quei bambini che adesso ti chiedono una firma su un foglio perché ti vedono come loro punto di riferimento».Concetto analogo che Zeman pare espresse alla Roma al giovane Francesco Totti. Forse è anche per questo che dicono che lei è zemaniano?«Ho cercato di prendere sempre il meglio anche dagli allenatori più volubili e meno malleabili che ho avuto, ma da Zeman sicuramente ho ricevuto qualcosa in più. È la persona con cui posso stare dieci ore assieme a tavola, magari davanti a una bella bottiglia di vino e non annoiarmi un secondo. A volte, quando vedo certi ragazzotti viziati, penso che a qualcuno di loro farebbe tanto bene allenarsi un po’ con Zeman, così capirebbero che cos’è lo spirito di sacrificio».Condivide in toto lo Zeman pensiero: 4-3-3, allenamenti massacranti e quell’epico “fuori la farmacia dal calcio”?«Moduli e sistemi di allenamento ho i miei. La sua denuncia sull’abuso di farmaci era legittima oltre che vera. A 16 anni se il dottore mi diceva “prendi questa pasticca che andrai più forte”, l’avrei presa. Oggi un ragazzino a quell’età sa cosa è giusto e cosa è sbagliato per la sua salute e noi gli insegniamo che non deve buttarsi via perché dopo il calcio dovrà affrontare una seconda vita».Nella loro “second life” Stefano Borgonovo e tanti calciatori italiani si sono ammalati di Sla. Che idea si è fatta sul “Morbo del pallone”?«Che è giusto andare a fondo e finanziare di più la ricerca per capire le cause di questa malattia. Borgonovo alla vigilia della sfida decisiva per la Serie A ci scrisse una email: «Ma che succede, avete paura di vincere il campionato?». Quella frase l’ho riportata nello spogliatoio ed è stata una scossa in più per chiudere la pratica promozione con il Livorno».Quel giorno, la promozione lei l’ha dedicata a suo nipote Riccardo...<+tondo>«Il primo pensiero è andato a lui, al figlio della sorella di mia moglie che era cresciuto in casa nostra. Mi diceva sempre: “Zio a me piacerebbe chiamarmi Di Francesco, perché sono orgoglioso di essere vostro parente”. Riccardo era e resta un angelo, sempre vicino alla mia famiglia».Ci pare di capire che la fede per lei sia importante...«Sicuro, ma non scomoderei mai Dio per una partita di calcio... La mia casa a Cà di Roggio è parte di un ex convento e vicino c’è una chiesetta dove mi piace andare a pregare in solitudine. Della mia fede parlo solo con don Mimmo che quando mi telefona mi dice: “Pronto Eusebio, sono la tua coscienza...”. Con lui e tanti altri amici, a Piacenza, sosteniamo la onlus William Bottigelli: ognuno mette la sua professionalità al servizio di chi ha più bisogno di noi».Tornando alla famiglia: c’è un altro Di Francesco, suo figlio Federico che come lei ha debuttato in A a 18 anni (nel Pescara, ndr).«Federico è in gamba, più tecnico di me. Deve ancora lavorare sul carattere per arrivare ai livelli di papà, ma ha i mezzi per riuscirci. Sarebbe un conflitto di interessi allenarlo in una mia squadra? No, ma è forse più giusto che faccia la sua strada».Sulla sua strada, da quando è a Sassuolo quante volte ha incrociato patron Squinzi?«Pochi incontri, ma tanti scambi veloci di idee piene di sostanza. Capisce di calcio? Squinzi è un esperto di ciclismo... Però da quando è nel calcio ha dimostrato grande intuito ed elevate capacità organizzative e poi gli piace vincere. Il suo sogno da milanista lo so è quello di andare a San Siro e battere l’Inter, ma posso assicurargli che faremo di tutto per fare lo stesso anche con il Milan».
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