venerdì 5 dicembre 2008
L'intervista all'ex giocatore della Lazio: «Mourinho ha ragione: siamo campioni del mondo, ma oggi il calcio italiano è decadente. I tecnici dicono ai ragazzini di 12 anni di simulare... Il terzo tempo? L’hanno ridotto a una farsa».
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«Sono un vincente? Sono un perdente? Non lo so. Quello che so è che sono uno che lotta». Da sempre questo è il grido di battaglia di Paolo Di Canio, un'ala destra geniale che ha conosciuto la solitudine di una diversità che forse ancora non abbiamo capito a pieno come invece gli inglesi che hanno fatto del ragazzo del Quarticciolo un baronetto del fair play. A 40 anni si sente «un puro, un po' irascibile»: in cima alla bacheca dei trofei mette però «i valori e il senso della famiglia che mi hanno consegnato i miei genitori e che ora con mia moglie Betta cerchiamo di trasmettere alle nostre figlie Ludovica e Lucrezia». Laziali come lui - «nell'anima», vent'anni fa (9 ottobre 1988) faceva il suo esordio in serie A, a Cesena, con la maglia biancoceleste. Una maglia che, nonostante le risalite Oltremanica e le ridiscese ardite romane, possiamo dire che è ancora la sua seconda pelle? «La maglia sì, mentre considero Lazio un'entità astratta. Questa di Lotito per me è una squadra come le altre, che vinca o che perda mi lascia indifferente. Non rappresenta la storia e a la tradizione che vive dentro di me e che mi fa dire con orgoglio "io sono la Lazio"...». Ma i tifosi laziali che vedono in lei un simbolo cosa penseranno? «Chi mi conosce sa che ho fatto della schiettezza una bandiera. Non sono un uomo di Palazzo e tanto meno un frequentatore di circoletti e salotti dove si va per compiacere e ricevere biglietti omaggio e viaggi premio in Europa. Il mio ultimo gesto d'amore verso la Lazio è stato quello di defilarmi. Oggi la guardo solo con l'occhio del commentatore tv (a Mediaset), punto e basta». Come vede, dunque, Zarate e compagni il suo occhio critico? «È dalla seconda giornata che dico che si tratta di una squadra moscia, un gruppo privo di un leader che può vivere di fiammate, ma non ha un progetto per il futuro. Hanno persino permesso a una Roma a pezzi di rianimarsi, facendogli vincere il derby. Non mi sorprenderei se alla fine si facessero anche sorpassare in classifica». Messa così Delio Rossi non ha nessuna chance domani sera contro l'Inter... «Rossi è un ottimo professionista che rispetto, nonostante tra noi ci siano stati degli scontri accesi. Sulla carta parte svantaggiato, ma nel calcio non si sa mai...». Lei che è un esperto del calcio inglese, chi è realmente Mourinho? «Un grande psicologo di strada, uno che conosce bene l'uomo prima del giocatore e questo gli permette di tenere tutto sotto controllo, dal gruppo fino ai rapporti con la stampa, comportandosi sempre da leader». Lippi ci ha appena spiegato la dicotomia "campione-fuoriclasse", a lei il concetto di leader. «Un leader in campo è un carismatico, è l'uomo che trasmette quella carica alla squadra che la fa diventare un'onda travolgente. In Italia vedo solo due leader veri: Paolo Maldini e Alessandro Del Piero». Noi pensavamo che il terzo leader potesse essere l'interista "Ibra". «Ibrahimovic è già da Pallone d'Oro, ma non lo conosco a fondo per sapere se sia un leader nello spogliatoio. Con lui l'Inter comunque è ancora più devastante e destinata a vincere il 4° scudetto di fila». Mourinho si lamenta spesso della nostra cultura sportiva: è così distante da quella inglese?«Ho vissuto e respirato quell'atmosfera di lealtà e autentico fair play per 8 anni e posso dire che qui siamo lontani anni luce. Trovo patetici quelli che a volte puntano il dito su un giocatore della Premier che simula un fallo di rigore; lì è l'eccezione, da noi la regola che ti insegnano a 12 anni e che squalifica tutto un movimento». Addio allora alla serie A campionato più bello del mondo... «I dati dicono che la gente segue con più interesse il calcio inglese e spagnolo e perfino quello tedesco ci ha superato. E questo nonostante un Mondiale vinto appena due anni fa. Stiamo vivendo una fase di decadenza preoccupante che si avverte dal campo fino alle curve». Un anno fa prima di un Inter-Lazio (si giocava a San Siro) moriva il tifoso Gabriele Sandri...«Mi ha dato molto fastidio quando mi hanno fatto notare che quel giorno la gente mi aspettava ai funerali di Gabriele, ma io non condivido mai il mio dolore con nani e ballerini che vanno solo a fare presenza. Ogni settimana quando salgo a Milano passo dall'autogrill di Badia al Pino e non manco mai di dare il mio saluto a "Gabbo", un fratello che non ho conosciuto...». La sua è una lotta contro l'ipocrisia, a cominciare dal fantomatico "terzo tempo". «Niente di più ipocrita, farsesco da quando poi è arrivata l'imposizione della Lega Calcio. Il terzo tempo in Italia vedo che si impiega per continuare a insultare l'arbitro o prendersi a schiaffi con l'avversario. La ricerca del risultato da noi è una malattia che azzera ogni forma di fair play». Parla già da futuro Mourinho, il patentino ce l'ha. E se la chiamasse Lotito per allenare la Lazio... «Non potrei mai lavorare con un uomo che non stimo. Sono disposto a cominciare dalla C1, a patto che ci sia un progetto serio. Per il momento osservo tutto e dico sempre quello che penso...».
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