giovedì 2 luglio 2015
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«Assenza è una stanza vuota lasciata com’era quando la persona che l’abitava è sparita. Anche se sono trascorsi anni. Un silenzio che diventa abitudine tra coloro che la stanno aspettando. Assenza è l’incertezza. Incertezza continua, totale». È difficile raccontare il vuoto. Il vuoto sconfinato che, scomparso dopo scomparso, sta inghiottendo il Messico. La parola “desaparecidos” è comunemente associata alle decine di migliaia di oppositori, veri o presunti, fatti sparire, nel senso letterale del termine, dalle dittature latinoamericane degli anni Settanta e Ottanta. Per restare al caso più drammaticamente noto, l’Argentina dei militari (1976-1983), i potenziali critici al regime venivano sequestrati, rinchiusi in carceri clandestine, torturati e gettati ancora vivi nel Rio de la Plata, in modo che i corpi fossero introvabili.Il termine, però – e la relativa “pratica” –, è stato coniato nel Messico turbolento degli anni Sessanta, per indicare la guerra sporca del partito egemonico, Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), contro guerriglieri e attivisti. Il sistema si è mantenuto nel Dna nazionale. Fino a ri-esplodere con la cosiddetta guerra al narcotraffico dichiarata dall’ex presidente Felipe Calderón nel 2006. Il mondo lo ha scoperto solo il 26 settembre scorso, quando la scomparsa di quarantatré studenti a Iguala, probabilmente rapiti e uccisi dai narcos su ordine del sindaco, ha travalicato i confini nazionali, guadagnandosi, per qualche giorno, l’attenzione internazionale. In realtà, i “43 di Iguala” sono appena la punta dell’iceberg: i desaparecidos – secondo il governo – sono almeno trentamila. I numeri reali potrebbero essere ben più alti. In ogni caso, anche attenendosi alla cifra ufficiale, significa che la democrazia messicana ha gli stessi desaparecidos della dittatura argentina. Com’è possibile? E, soprattutto, chi scompare e perché? Il libro-inchiesta Ni vivos ni muertos di Federico Mastrogiovanni, pubblicato in Italia da DeriveApprodi con doppia prefazione di Gianni Minà e Javier Avilés (pagine 192, euro 17,00), non si limita a rispondere a tali interrogativi. Il reporter, romano di nascita e messicano d’adozione, traduce in parole quel vuoto che la società messicana ha imparato a ignorare. Costringendo l’opinione pubblica a sporgersi sull’orlo della voragine e a guardarvi dentro. La scomparsa di altri esseri umani, per quanto estranei – scrive –, è «una barbarie che si commette direttamente e quotidianamente contro ognuno di noi». Poiché con essa, il terrore diventa parte della normalità, è «accettato, tollerato, ammesso nella cultura popolare».È questo, del resto, l’obiettivo delle sparizioni di massa – come sottolinea Ni vivos ni muertos, che ha ricevuto i premi Pen internacional e Club de periodistas –: annichilire la società per assoggettarla. Le praticano i narcos per assicurarsi la non opposizione della popolazione nei territori “conquistati”. O per garantirsi manodopera schiava da impiegare nella costruzione di tunnel lungo la frontiera con gli Usa da cui far passare la droga, di reti di comunicazioni illegali, nella coltivazione di oppio o marijuana. O ancora, avere a disposizione esseri umani da uccidere, mutilare e abbandonare per strada come segnali di avvertimento ai nemici.A far scomparire le persone, però, è anche – e forse soprattutto – lo Stato. Attraverso la complicità diretta di interi comparti istituzionali, in particolare, in quelle zone ricche di ricchezze naturali da sfruttare senza opposizione interna. E attraverso l’incapacità – oppure non volontà – di fare giustizia, localizzando i desaparecidos e arrestando i colpevoli. In una parola, colmando il vuoto, oscuro e insondabile. Eppure, anche nel buco nero delle sparizioni, fiammeggiano, come barlumi di luce, le lotte ostinate di familiari e attivisti per i diritti umani. Le loro denunce coraggiose – descritte con passione da Mastrogiovanni – diventano l’antidoto per sottrarre frammenti di Messico al cancro disumanizzante del terrore. Perché a muoverli è l’amore per i propri cari, «un amore più grande della paura».
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