martedì 23 luglio 2013
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Berlino è una città senza storia, senza memoria. Nella città più anonima, in un caffè aperto la domenica dall’altra parte del Mitte e della Sprea, l’incontro con Ingo Schulze.Lei nasce a Dresda nel 1962, compie gli studi classici a Lipsia, fa il suo apprendistato a Jena e alla fine approda a San Pietroburgo, sulla Neva. Lì scrive il suo libro più famoso «33 attimi di felicità»…«Ero alla ricerca della cosiddetta propria “voce inconfondibile”, di una mia “voce originale”. Ciò che mi colpisce e affascina a San Pietroburgo è che in uno stesso luogo agiscano contemporaneamente epoche diverse, fatti culturali diversi e che questo mi consenta di ricapitolare le trasformazioni avvenute e in fieri. Siamo in Russia in un mondo ormai postsovietico, dentro una transizione epocale. A partire dal 1985, da quando Gorbaciov era a capo del Paese, si percepiva un vento nuovo. Stavamo sempre seduti davanti al televisore, non riuscivamo a credere a quello che stava succedendo. Era appunto l’estate del 1989, poi venne l’autunno, con la sua piccola rivoluzione, e quando poi alla fine del 1992 tornai per la prima volta non più nell’Unione Sovietica e non più a Leningrado, bensì a San Pietroburgo, il mondo si era completamente trasformato. Vite, vicende, destini che si snodano e accadono attorno a me, improvvisamente diventano la ragione della mia scrittura, entrano nella mia pagina prima vuota. Camminando per la Prospettiva Nevskij, che è la strada principale, che ricorre spesso anche nella letteratura russa e sovietica, si vedeva, dal punto di vista delle attività economiche, il vecchio negozio statale a fianco di una boutique, subito prima di un rivenditore russo di merci varie, poco più avanti un lucidascarpe. Anche dal punto di vista religioso, tutti coesistevano con tutti: dagli ortodossi ai missionari cattolici ai seguaci di Hare Krishna; dal punto di vista politico, nel giro di 500 metri o di un chilometro, si aveva un’idea dell’intera gamma dei diversi orientamenti: dai nazionalisti ai fascisti, dai monarchici ai comunisti ai democratici».Perché questo titolo, «33 attimi di felicità»? Di quale felicità si parla qui?«Un tema su quale ci si potrebbe intrattenere molto molto a lungo. Punto di partenza è l’idea del “diritto alla felicità” nella Dichiarazione dei diritti umani, nella Carta della rivoluzione americana come in quella francese. Anche il regime socialista o addirittura stalinista aveva un’idea precisa di cosa dovesse essere la felicità o addirittura la sua realizzazione in forma di dovere, “dovere della felicità”. Essere felice è l’aspirazione di ogni essere umano, però la felicità è anche la distanza fissa – la costantemente lontana stella polare – del destino individuale».Nel suo secondo libro, «Semplici storie», c’è chi piange il buon tempo passato: i beni comuni, l’abolizione della proprietà privata, il sogno dell’uguaglianza che attraversa il secolo d’Europa…«La crisi della transizione in Germania riguarda adesso una condizione globale, non limitabile a quella che si chiama fine del socialismo. Negli anni Ottanta e Novanta si determina una nuova dimensione della globalizzazione, contemporanea al crollo del sistema dell’Est e alla crisi del collante dell’Unione sovietica. Tanto è più chiaro quando oggi possiamo vedere come 150 imprese gestiscano il 40% della ricchezza mondiale, e se guardiamo i primi 50 nomi di questa graduatoria, vediamo che si tratta di banche o istituti finanziari». Lei ha un particolare rapporto con l’Italia. «Arance e angeli» è il libro che porta il sottotitolo «bozzetti italiani», scritto nel 2007 durante un periodo di permanenza in Italia. Perché tanto interesse?«L’esperienza dell’Italia è stata decisiva per una ragione molto precisa: in Italia è visibile ciò che in Germania non è ancora tale. In Italia è evidente il rovescio del benessere occidentale: la misura della illegalità, della clandestinità di tutto ciò che non è organizzato, il panorama di coloro che sono le vittime di questa degenerazione. E in Italia tutto si agita e si anima dentro una straordinaria sedimentazione temporale: 2.500 anni di storia che si sovrappongono al tempo di oggi, alla Prima e alla Seconda guerra mondiale. Si ha l’idea che non si tratti di una dimensione passata ma di una dimensione presente. L’incontro con la civiltà antica, la storia, la memoria di ciò di cui siamo fatti. L’Italia è un Paese reale, equipaggiato letterariamente e culturalmente, ma dove ci sono i luoghi dell’«Eneide», di un passato mitico che è esperienza quotidiana del reale. Conosco bene la Sicilia dove tutto ciò, la dimensione del Mediterraneo in cui converge la cultura del nord Africa, produce un conglomerato di impulsi, una mescola di tradizioni diverse. Qui a Berlino la Storia sparisce. Dopo l’89 vi è una costante sparizione. La storia sparisce, spariscono le tracce dei colpi e dei proiettili della Seconda guerra mondiale…».Nel suo libro appena uscito in italiano nelle edizioni Adv, «Noi nella crisi. Chi paga il conto?», lei denuncia un crescente attacco alla democrazia e pone al lettore la domanda cruciale: «Quale società vogliamo?»«Qui in Germania e in generale si parla di continuo di crescita. Ma, negli ultimi dieci anni siamo finiti in una clamorosa divaricazione tra l’alto e il basso, tra ricchi e poveri. La direzione che a me sembra anche auspicata dalla maggioranza è quella di contrastare i poteri di una minoranza che si arricchisce in maniera sempre più esponenziale. Anche un libro, anche interventi di minima volti ad attutire la disparità di risorse e le iniquità sociali sono contributi di energie e sono utili… Si è determinata una nuova condizione dello scrivere o dell’intervenire per superare una condizione ormai di frustrazione… Non c’è democrazia sinché la democrazia si preoccupa di guadagnare la fiducia dei mercati. La democrazia deve creare una difesa dell’interesse collettivo, non entrare nella logica degli affari. Democrazia è la possibilità di porre un veto laddove gli interessi collettivi vengono minacciati».

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