sabato 10 dicembre 2011
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L'euro vacilla, la democrazia è in pericolo e anch’io non mi sento troppo bene. D’accordo, la battuta di Woody Allen si presta a un’infinità di rimaneggiamenti, ma questa volta il calco è davvero appropriato. La tempesta di questi mesi, infatti, chiama in causa diversi livelli di criticità, inediti nel loro intreccio. All’origine c’è il cataclisma finanziario che – come ha osservato lo scrittore Adam Haslett – mette in discussione la sovranità degli Stati nazionali. Una minaccia che assume contorni particolari nel Vecchio Continente, dove il processo di formazione dell’Unione europea parrebbe cedere il passo a una visione tecnocratica, stigmatizzata anche dal filosofo Jürgen Habermas. A complicare il quadro, ecco affacciarsi sulla scena i Paesi arabi e la Russia della tempestosa transizione del dopo-Putin: democrazie giovanissime, traumaticamente prive di un affidabile modello di riferimento.«Le difficoltà dell’Europa non sono una buona notizia per nessuno – ammette Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano –, ma da qui a ipotizzare modelli alternativi ce ne passa. La nostra democrazia, del resto, non è nata per governare crisi di sistema su scala transnazionale. Al contrario, il suo obiettivo stava nel combattere il manifestarsi di derive autocratiche all’interno delle singole nazioni. E da questo punto di vista la democrazia funziona ancora benissimo, come abbiamo visto anche di recente, perché attraverso i meccanismi rappresentativi è possibile dare il benservito agli esecutivi inefficienti. Per la stessa ragione, sono convinto che il modello occidentale conservi una straordinaria attualità nel ribadire un principio semplicissimo e necessario: governare un Paese non significa possederlo. La ribellione che sta all’origine delle Primavere arabe e delle proteste in Russia si fonda per l’appunto su questa premessa». Tutto bene, allora? «Non ci si può nascondere che l’Unione europea sia, almeno in parte, una grande incompiuta – risponde Parsi –. Purtroppo questa debolezza riguarda uno degli aspetti costitutivi del progetto europeista, e cioè la volontà di proteggere il Continente dalle pressioni esterne, comprese quelle dei mercati finanziari. Ancora una volta, però, invito a non emettere giudizi frettolosi: l’Europa è pur sempre il luogo in cui la democrazia, a livello internazionale, è meglio tutelata».Un giudizio severo viene dall’economista Loretta Napoleoni: «Siamo in una fase in cui ha la meglio la democrazia delle élites – denuncia –,  un dispositivo di facciata che nasconde le vere responsabilità. Questa crisi non va misurata in mesi, ma in anni. Il momento di svolta resta la caduta del Muro di Berlino, che porta con sé due fenomeni inquietanti. Da un lato la politica ha operato una delega in bianco nei confronti della finanza, in una deregulation selvaggia di cui scontiamo oggi le conseguenze e che ancora non è del tutto nota nella sua geografia di connivenze e convenienze. Su un altro versante, le opposizioni perdono sempre più il loro ruolo, fino a ridursi all’irrilevanza. E senza un’opposizione degna di questo nome non può esserci democrazia, su questo non si discute». Addio al modello europeo, quindi? «Il paradosso – prosegue la studiosa – è che questa stessa crisi ha fatto da detonatore in alcune regioni del mondo, prima fra tutte il Nordafrica, dove un’autentica democrazia non c’è mai stata e dove si stanno avviando processi dall’esito imprevedibile. Personalmente sono più in apprensione per l’Europa settentrionale, nella quale raccolgono consensi sempre maggiori formazioni di estrema destra. Una realtà che in Italia si tende a sottovalutare, ma che interessa ormai un arco di Paesi che va dalla Germania alla Gran Bretagna, dalle Francia alla Scandinavia».Uno scenario ancora più vasto è suggerito dal politologo Filippo Andreatta: «Da almeno cinquecento anni la centralità dell’Occidente è data per scontata – spiega –, ma d’ora in poi potrebbe non esserlo più. Forse non è un male in sé, ma è un bel grattacapo per l’Europa, che all’improvviso si trova respinta in posizione periferica. Esistono esperienze locali di democrazie più o meno compiuta: l’India e il Giappone, per esempio, per certi aspetti la Cina. Ma non si tratta in alcun modo di soluzioni esportabili o replicabili a livello internazionale. Sarei tentato di dire che in tutto questo non c’è nulla di nuovo, considerato che già nel 1946 Karl Polanyi considerava conclusa la “grande trasformazione” iniziata con la Prima guerra mondiale. Una fase storica in cui la crisi economica del ’29 aveva svolto un ruolo decisivo, mettendo a repentaglio la sicurezza delle democrazie occidentali. Se torniamo agli anni Trenta, ci accorgiamo di come, in Paesi quali gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, si guardasse con timore all’avvento dei totalitarismi. C’era il sospetto che la democrazia potesse non farcela. Non è andata così, ma a prezzo di enormi sacrifici». Dobbiamo prepararci al peggio? «No – replica Andreatta –, dobbiamo riscoprire il meglio. La crisi dei nostri anni è legata a un impoverirsi della progettualità politica, troppo spesso svilita in tatticismi spiccioli che permettono, tutt’al più, di racimolare un po’ di consenso elettorale. Manca la consapevolezza della dignità del lavoro politico. Che,come ogni lavoro, esige di essere fatto bene, con orgoglio e con passione. L’errore sta nel pensare che un atteggiamento del genere appartenga al passato. Al contrario, è ancora oggi l’unico futuro possibile per la democrazia. In Europa e nel mondo».
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