«Pippo, devi fare qualcosa che parli dell’amore. Dovresti fare il Vangelo. C’è tanto bisogno di amore in questo mondo». A esternare con dolce fermezza questa preghiera sconfinante nell’implorazione fu Margherita, in punto di morte, la mamma, fervente cattolica, del suo unigenito Pippo che da 30 anni aveva abbracciato il buddismo. Dentro l’animo di Pippo Delbono si scatenò allora una tempesta: i suoi ricordi di un’educazione devozionale e i solchi di un catechismo coercitivo lottavano ferocemente contro il desiderio autentico di esaudire la richiesta materna e di riconciliarsi con l’idea di un Dio Padre infinito amore. La soluzione fu mettersi in cammino. Verso dove? Nei luoghi deputati del dolore, laddove è possibile oggi abbracciare la croce, accogliere gli strazi e le ferite, dove le parole «ero straniero e mi avete ospitato, ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere » diventavano carne, lì dove il Vangelo appunto si incarnava, tra i profughi, i rifugiati, gli uomini scampati agli odierni esodi. È da questo tuffo nella sofferenza che nasce Vangelo, spettacolo presentato in prima mondiale al Teatro Nazionale Croato di Zagabria l’11 dicembre 2015 e diventato film, prodotto tra gli altri da Donatella Palermo e dai noti registi e sceneggiatori belgi, i fratelli Dardenne. La fotografia si avvale dell’apporto di Fabrice Aragno e la colonna sonora delle musiche di Enzo Avitabile. Il film sarà proiettato il 29 e 30 marzo in numerose città e nelle sale aderenti all’Acec. La ricerca e il viaggio nelle urgenze dell’umanità dell’artista ligure non resta intrappolato sul grande schermo, ma proprio questa sera esonderà sulle tavole del palcoscenico e sulla platea del Teatro Arena del Sole di Bologna con un evento il cui titolo declina un altro valore dal respiro evangelico: La Gioia. Ma attenzione, la gioia di Pippo Delbono invita ad andare al di là degli stereotipi e delle apparenze, lungi dalla spensieratezza si ispira più alla “perfetta letizia” francescana.
La gioia non solo non fa rima con morte, ma di solito viene collocata agli antipodi dell’evento luttuoso; e invece tu volevi addirittura inizialmente intitolare lo spettacolo Una morte gioiosa e non per mera provocazione…
«No, non ho più l’età per provocare, così come non ho mai avuto intenzioni provocatorie, ad esempio con Vangelo, perché lo scandalo è insito nelle parole stesse di Cristo quando dice: “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli”».
Altrettanto oggettivamente scandaloso però è al giorno d’oggi associare l’idea della mor- te a quella della gioia, a maggior ragione in un’epoca di morti spettacolarizzate a fronte di un processo ormai annoso di rimozione del morire. C’è l’intenzione di contrastare l’operazione di rigetto e rifiuto della morte con lo spettacolo La Gioia?
«Assolutamente sì. La gioia può essere tale solo se si rapporta con la morte, non è un “facciamo finta che tutto va bene”. La gioia nella morte è secondo me un grande obiettivo che bisogna mettersi nella vita. E lo dico in un periodo della mia esistenza molto difficile e critico in cui sto combattendo contro i nemici, i demoni che sono nella mia testa. Ma ringrazio ogni giorno per il dono della vita, sono grato per la giornata di oggi in cui sono riuscito a lavorare, a creare qualcosa per lo spettacolo, persino a cantare… Spero solo che questo spettacolo comunichi alla gente la coscienza che non si giunge alla luce se non si passa dal dolore perché gioia vuol dire anche sincerità, onestà con se stessi, amare qualcosa di profondo, di intimo anche se è difficile amare se stessi».
Consapevole che i tuoi spettacoli sono sempre più che mai “in fieri”, in continuo divenire e crescono, si evolvono col tempo e con le repliche, si possono anticipare alcune visioni certe, qualche punto fermo?
«Premesso che non ho alcuna ansia stavolta per la prima di Bologna e che espliciterò che si tratta di un work in progress, di uno “studio”, come si dice ora, posso tranquillamente svelare che le scenografie saranno quasi assenti, che ci sarà un enorme tappeto floreale…».
Perché la scelta dei fiori?
«Perché ho provato una profonda tenerezza quando di recente ho visto un fiore spuntare nella neve, l’ennesima dimostrazione della vita e della delicatezza che non muore, ma vince sul gelo e sulla morte».
Altre certezze per chi assisterà allo spettacolo?
«Che toccherò il tema dell’esodo, dei rifugiati e poi credo che si percepirà che questa esperienza artistica è il risultato di un abbattimento di barriere fra attori e tecnici scaturito da uno spirito di comunità e condivisione totale. Ma in particolare la mia speranza è che arrivi al pubblico un concetto a cui tengo sommamente: la gioia non è nulla di statico, non è un dato o un obiettivo acquisito, è una meta, è un cammino».
A tale proposito non si possono ignorare le parole di papa Francesco proprio sulla gioia, da lui definita in una meditazione nella Cappella di Santa Marta,“un dono profondo che ci riempie da dentro, una virtù pellegrina che cammina sulla strada della vita assieme a Gesù”.
«Anche se sono buddista c’è totale aderenza alle parole di papa Francesco che per me rappresenta uno degli ultimi rivoluzionari, d’amore si intende. E a proposito di amore e grandezza d’animo dopo tutto mi piacerebbe che in questo spettacolo si ridesse anche… di cuore».