mercoledì 20 luglio 2016
In vigore da oggi il decreto Balduzzi: le attrezzature dovranno essere presenti in tutte le società dilettantistiche. Parla il dottor Castelli, medico e papà di un giovane calciatore morto in campo per arrestoicardiaco.
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Vincenzo Castelli, oltre ad essere un medico, è anche il presidente della Fondazione Giorgio Castelli Onlus – da lui fondata dieci anni fa con il nome di uno dei suoi tre figli, giovane calciatore dilettante morto in campo a causa di un arresto cardiaco – che si occupa di diffondere l’uso dei defibrillatori che proprio da oggi, per legge, devono essere obbligatoriamente presenti nelle sedi delle 110 mila società sportive dilettantistiche italiane. «Al momento però preferisco usare per prudenza ancora il condizionale, “dovrebbero”, dopo il rinvio di sei mesi deciso lo scorso gennaio: da oggi comunque dovrebbe, appunto, entrare in vigore il decreto Balduzzi e di certo un ulteriore ritardo nell’applicazione del provvedimento sarebbe pericoloso ».

Quali sono state le conseguenze di questo rinvio? «Da gennaio ai primi di luglio ci sono stati 77 decessi avvenuti in ambito sportivo. Sicuramente non tutte, ma una parte di queste 77 persone, se ci fosse stato il defibrillatore, poteva essere salvata. Con il Dae (Defibrillatore automatico esterno) a presidiare la zona dove si svolge un’attività sportiva si potevano salvare vite umane che invece, purtroppo, non hanno avuto scampo».

Ora le società sono pronte? «Non sono ancora del tutto attrezzate perché la scadenza coincide con l’estate a campionati fermi. Sicuramente, rispetto a gennaio, ci sono più defibrillatori installati e persone formate. Posso capire la complessità del discorso organizzativo ma andavano protetti comunque tutti i luoghi. Poi, al limite, si potevano concedere ulteriori sei mesi per la formazione. Questo perché la legge permette l’uso del defibrillatore anche a chi non è medico e a chi non è stato adeguatamente addestrato. L’articolo 54 del codice penale contempla lo stato di emergenza, per cui non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo».

Ci sono sportivi più difficili da proteggere dal rischio d’infarto rispetto ad altri? «Ogni sport mette alla prova l’apparato cardiovascolare. Le attività più a rischio sono quelle di movimento. Va da sé che è più facile proteggere l’impianto dove si pratica l’atletica, il nuoto o il calcio. Più difficile invece farlo nel ciclismo o nel canottaggio. Come possiamo risolvere il problema? Nel canottaggio, non potendo portare l’attrezzatura sull’imbarcazione, sarà impiantato alla partenza e all’arrivo. Nel ciclismo sarà posizionato su una moto o sulla macchina al seguito dei corridori».

Perché in Italia, in caso di emergenza, oltre a chiamare i soccorsi, non si cerca di intervenire in prima persona? «Perché siamo meno preparati rispetto ad altri Paesi. In Corea del Sud esiste persino un Festival sulla gestione delle emergenze – dovute a inondazioni e terremoti – a cui partecipano bambini, genitori e insegnanti. Noi iniziamo ad affrontare tutto questo soltanto ora. Finalmente è entrato nelle scuole l’insegnamento della Bls (la rianimazione cardio polmonare semplice senza Dae)».

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