venerdì 15 maggio 2015
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Sono trascorsi trentacinque anni da quando Mad Max correva a bordo del suo Interceptor tra le sabbie del deserto australiano, in un futuro post apocalittico e distopico affamato da un leader feroce. Oggi il 37enne inglese Tom Hardy veste i panni che furono di Mel Gibson, lanciato nel 1979 proprio da questo personaggio, e all’inizio fa a botte con Charlize Theron, che calva e armata di un braccio bionico ha una missione da compiere. Ma Mad Max: Fury Road, presentato ieri fuori concorso a Cannes, accolto con entusiasmo dalla stampa internazionale e diretto da George Miller, lo stesso regista che ha realizzato la trilogia diventata un caso cinematografico e un fenomeno di costume, resta piuttosto fedele allo spirito dell’originale. Solo che il regista riaggiorna (in quello che tecnicamente si chiama reboot)  il mondo del suo eroe e lo espande pensando ai giovani fruitori di videogiochi per i quali la storia non è poi così importante.  Nel film, che non ha una sceneggiatura ma uno storyboard di 3500 vignette, la psicologia dei personaggi è quasi azzerata, i dialoghi ridotti al l’osso e lo spettatore assiste frastornato a una corsa lunga due ore nel deserto a bordo di bizzarri e giganteschi veicoli affollati da altrettanto bizzarre creature, soprattutto war boys al servizio del tirannico Immortan Joe signore di una Cittadella che sembra la Metropolis di Fritz Lang. La cosa più preziosa in questa realtà devastata da una catastrofe non meglio specificata è l’acqua, ed è questo forse l’unico rimando concreto a una delle preoccupazioni che affliggono realmente il pianeta. Max ha perso moglie e figlia (che lo perseguitano come in un horror) e ora il suo unico istinto è quello di sopravvivere. Si ritroverà coinvolto nella pirotecnica corsa per la salvezza quando il suo destino incrocia quello di Furiosa che con la scusa di un approvvigionamento fugge su un camion per cercare la sua verde terra natale, portando con se un gruppo di concubine schiave dell’orrido e feroce Immortan Joe, già padre di numerosi mostri. Il film dunque si colloca a metà tra un western tribale (con camion e motociclette al posto dei cavalli) e un action movie allo stato puro, carico di adrenalina, con scene spesso accelerate e della durata di pochissimi secondi. Uno spettacolo pirotecnico che sembra mettere insieme le acrobatiche performance della Fura del Baus e del Cirque du Soleil, tra inseguimenti serrati, tempeste di sabbia e le note di una chitarra elettrica e giganteschi tamburi che suonano incessantemente in scena le note del musicista olandese Junkie XL, per incalzare i guerrieri alla battaglia. E se il regista ha dovuto orchestrare sul set (situato in realtà nel deserto della Namibia) una troupe di 1500 persone in 120 giorni di riprese, la montatrice Margaret Sixel (che è anche la moglie di Miller) ha avuto il compito di distillare in 120 minuti da un materiale di 450 ore. E a dispetto di tanto entusiasmo sulla Croisette, a noi sembra che il film non abbia molto da dire, più preoccupato di stupire che riflettere sul quello che il tema potenzialmente offrirebbe. «Pensavo da molti anni a un nuovo Mad Max, ma la sua realizzazione era ogni volta complicata da molti fattori, non ultima la crisi economica, ma ci si erano già messi l’11 settembre che aveva fatto lievitare il budget, la guerra in Iraq, l’alluvione in Australia», dice Miller che a settant’anni suonati, con i capelli tutti bianchi, ma entusiasmo e follia da vendere, tornerà ad essere uno dei registi più amati dai giovanissimi.
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