Il monumento a Dante Alighieri in piazza dei Signori a Verona
L’attualità inattuale di Dante continua a stupire, a generare idee, commenti, libri. Ed ecco l’agile e documentato volumetto di Filippo La Porta, Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio (Giunti/Bompiani), che, fin dal titolo, evoca una lettura militante, “personale” del Poeta. In sottofondo uno spunto autobiografico, ci rivela l’autore: «A che cosa educare i propri figli? All’integrità e onestà…[ o] al successo e alla lotta per l’esistenza? (p. 7)». E come farlo in un’epoca di crisi, di travaglio antropologico, “di scomparsa degli dèi”? La chiave di lettura, mutuata da Simone Weil, da Elsa Morante (e da altri interlocutori con cui il La Porta intrattiene uno stretto e fecondo dialogo), diventa quella di reale-irreale. Letti in questa luce, bene e male risultano meno astratti, e ci rimandano ad un significato più profondo, non moralistico. Il bene è riconoscimento della realtà, del valore di ciò che esiste, del presente, ed esperienza di tutto ciò. Il male invece rende irreale il ciò che è: lo manipola, lo veste di illusioni, ne fa un oggetto, mortifica la relazione. Questa categoria bene-reale/male-irreale non è propriamente e testualmente dantesca, ma apre possibilità di dialogo, di visione, di esperienza altra di Dante. Non dobbiamo dimenticare che per Dante vale come Gregorio Magno scrisse per la Bibbia: crescit cum legentibus. E anche Dante cresce con chi lo legge, e soprattutto cresciamo noi, in sapienza, in intelligenza, in “bene” come adesione cosciente alla realtà.
Così l’Inferno stesso potrebbe diventare, utilizzando questa categoria, il regno dell’irrealtà, dell’offuscamento di ciò che è. Non solo in esso non vediamo più il sole, la luce, la terra, il mare (come invece avverrà fin dal I canto del Purgatorio, primizia di bene, di recupero della realtà), ma anche non sperimentiamo più il presente. Così è della condizione dannata, come ricorda Farinata: «Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, / le cose», disse, «che ne son lontano; […] Quando s’appressano o son, tutto è vano / nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, /nulla sapem di vostro stato umano» (If X,100-102). E non vivere il presente, ma oscillare tra fantasmi futuri e passati è realmente un inferno esistenziale. L’Inferno è quindi irrealtà di separazione: da noi stessi e dalle nostre profondità, dall’altro, dalla natura, dai vivi, dal mistero divino, da una vita buona e compiuta.
Non dimentichiamo che il cammino della Commedia, come si dice nell’Epistola XIII a Cangrande della Scala, vuole «liberare i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità». L’immagine del Conte Ugolino che sbrana e divora l’arcivescovo Ruggeri è emblematica di una devastazione delle relazioni, che diventano, letteralmente e metaforicamente, cannibaliche. Eppure l’uomo, in Dante, è essere di e per la relazione. È questa la sua realtà profonda. Per cui l’homo homini lupus non ha “più realtà”, perché tante volte è tale, ma ne ha meno. In questa figurazione si sbiadisce la natura umana profonda, che come canta il Poeta, nei due regni successivi, si radica in una relazione triadica e trinitaria, con il “germe divino” che ci abita (p. 29), con i fratelli e le sorelle (la parola “frate”, fin da subito risuona nella seconda cantica) e con il mistero luminoso che tutto pervade. Il Purgatorioè il doloroso ma fattivo cammino di trasformazione. Il Paradisoracconta invece processi di integrazione, che non avvengono solo dopo, ma già qui, «in questa vita », come la già citata Epistola XIII ci ricorda a chiare lettere. Ha ragione quindi La Porta quando utilizza per Dante l’espressione «teologia esistenziale », citando Romano Guardini, e quando ci ricorda il primato pratico, etico, cioè trasformativo, concreto del poema. Importante in questo senso il riconoscimento dell’esperienza mistica che innerverebbe i percorsi sia del Poeta che della Weil, proiettandosi dall’intimo alla vita pubblica e politica (p. 14). Anche se questa istanza andrebbe indagata con più radicalità. Infatti la mistica dantesca non è «smemorata» (p. 22). Tutt’altro. La retorica dell’ineffabilità, tipica di un testo mistico, dice l’imprendibilità per il concetto e per la via solo razionale del mistero. Non mortifica la ragione, ma la trascende. La mistica dantesca piuttosto è un’esperienza concretissima e ardente della Vita, in tutta la sua profondità materiale umana e divina, o, per dirla con Raimon Panikkar, «cosmoteandrica». E certo – qui La Porta dice bene – un’esperienza non per eletti o superuomini, ma accessibile a tutti. Come tanta critica dantesca ha ben evidenziato, fin da alcune folgoranti intuizioni di Ezra Pound, Dante rappresenta se stesso, ma anche l’umanità tutta. È un everyman. E in Dante si percepisce sempre una «dimensione ecumenica, inclusiva… universalistica» (p. 76), e il suo essere un poeta fondamentalmente popolare (p. 84).
Il viaggio dantesco che ci propone La Porta è sapienziale. E tocca una corda fondamentale dell’intera avventura umana e artistica del Poeta: la ricerca della Sapienza, di Donna Sapienza, in un’erotica conoscitiva, per la quale non c’è vera conoscenza senza amore. E viceversa. Da qui l’interpellare Dante per averne spunti di fronte ad una modernità esausta, stanca, fragile e frammentata. Per un’etica da terzo millennio. Da qui la passione per il guardare «con la mente sana» (Pg VI, 36) la vita, scoprendola buona, piena, ma soprattutto reale (pp. 213ss.). Da qui l’invito a vedere e ascoltare i piccoli, i bambini: «Se tu li guardi bene e li ascolti » (Pd XXXII, 48), imparerai e molto ti sarà rivelato. Aggiungo che sulla centralità dei bambini nell’opera dantesca, andrebbero almeno ricordati il magnifico capitolo II di Vita Nuova, dove si racconta l’incontro di un Dante novenne con l’amata Beatrice, nel suo nono anno. I numeri sono simboli in Dante che non offuscano la realtà. E il finale del supremo poema, dove il Poeta torna infante: «Omai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella» (Pd XXXIII, 106-108). Il Dante che si intravede in questo libro è molto più “pluralista” e composito del monolitico medievale a cui siamo abituati. Ma è proprio così: l’opera “perfetta”, ad orologio, è pure piena di spinte e controspinte. Dante non “riduce tutto a uno”, ma è trinitario: ancora il primato delle relazioni, e di una realtà che si rivela cangiante, varia: dalle molteplici lingue alle tante possibilità umane angeliche e divine.
L’opera di Dante ci addita altre «radici dell’Occidente, per rifondare la nostra civiltà: la giustizia che vince sulla forza, sul potere». È bene colta quindi la natura profetica del Poeta, non perché predice ciò che si è realizzato, ma perché misura la Storia non su uno storicismo che la giustifica, ma a partire da un ideale “eterno” di bellezza, di etica e di amore. «Insomma: lo prendiamo sul serio Dante?» (p. 161). Allora la critica dantesca alla civiltà borghese, alle prime banche, ad una prima finanza e ad un protocapitalismo già aggressivo, non è più reazionaria. È piuttosto un altro sguardo, un’altra prospettiva che giudica la nostra modernità. Cosa direbbe oggi Dante di un’economia assolutizzata, che affama nazioni e popoli? Quale inferno per un regno della lupa così violento e iniquo? Non si tratta però di un primato del «momento morale, ’politico’ … sulla dimensione mistica» (p. 194). In Dante la mistica è primato della vita, sempre. Come si legge fin dal primo verso: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». La mistica non è fuga, ma responsabilità e impegno. La spiritualità di Dante quindi è mistica, politica e critica. Una triade inedita, che ancora dobbiamo forse comprendere e certo incarnare. La contemporaneità di Dante è tanto attuale quanto inattuale. Dante ci chiama e ci provoca dal passato, dal presente e dal futuro, in perenne novità.