Cinema e pugilato: un connubio felice. E non solo per i tanti film che si sono ispirati ai grandi campioni della “nobile arte” o che, come l’immenso
Lassù qualcuno mi ama, di Robert Wise, del 1956 (è la biografia di Rocky Graziano, interpretato da Paul Newman), ne hanno celebrato fasti e sventure, ma anche per i suoi stessi protagonisti, atleti (suonati e non) scesi dal ring magari al termine di una brillante carriera per entrare sul set e conquistarsi ancora un briciolo di popolarità o il denaro per tirare avanti. E come poteva sottrarsi Hollywood al fascino inossidabile della boxe, paradigma della vita, sport che significa sfida, sudore, sacrifici, che mostra forza e fragilità di un uomo impegnato a riscattarsi dalla miseria, di un combattente che può finire anche kappaò ma poi rialzarsi e andare incontro alla gloria. La storia della Settima Arte è costellata di personaggi che, appesi i guantoni al chiodo, sono stati chiamati da produttori e registi a perpetrare il loro stesso “mito” facendo a cazzotti per finta davanti a una cinepresa. A cominciare da Primo Carnera, il gigante di Sequals che, lasciato il quadrato e il tappeto da lottatore all’inizio degli anni ’50 parteciperà, ma in ruoli sempre secondari, a quindici pellicole, tra cui il “peplum”
Ercole e la regina di Lidia (di Pietro Francisci, del 1959) liberamente tratto dalle tragedie di Eschilo e Sofocle, e il più modesto
Il tallone di Achille (di Amendola e Maccari, del 1953), commedia brillante con Tino Scotti e Paolo Stoppa nella quale impersona se stesso. Alla leggenda del pugilato, quell’omone figlio del Friuli, alto due metri e pesante 125 chilogrammi, si ispirò il regista e produttore canadese Mark Robson per
Il colosso d’argilla, con Humphrey Bogart (fu il suo ultimo ruolo prima di morire) dove appaiono anche gli ex campioni mondiali dei pesi massimi Max Baer (detto Madcap Maxie) e Jersey Joe Walcott. L’opera, del 1956, rimane forse la più realistica ed asciutta rappresentazione cinematografica dell’ambiente della boxe nell’America di quel periodo, un film privo di quella patina retorica da favola moderna che ha caratterizzato per quarant’anni (dal 1976 al 2006) i sei popolarissimi film della saga di Rocky Balboa pensati, realizzati e interpretati da Sylvester Stallone. Altro caposaldo del genere, firmato anch’esso da Robson, è
Il grande campione, del 1949, con Kirk Douglas nei panni di un pugile cinico e senza scrupoli che, travolto dal successo e dalla ricchezza, muore in un camerino dopo l’ultima strepitosa vittoria. Ma torniamo ai boxeur che non hanno resistito al richiamo della macchina da presa. Nella “rassegna” non può mancare Muhammad Ali alias Cassius Clay, attore di se stesso in
Io sono il più grande del 1977, diretto (non proprio splendidamente) da Tom Gries e Monte Hellman e interpretato, tra gli altri, da Ernest Borgnine: è un “biopic” che ripercorre la vita, agonistica e non, dell’egocentrico pluricampione mondiale dei massimi. Un altro personaggio controverso di questo sport finito sotto la luce dei riflettori di un set è stato Jake La Motta, detto Toro scatenato (da cui l’omonimo film di Scorsese con De Niro): il pugile italo-americano campione dei pesi medi dal 1949 al 1951 lavorò (in piccole parti) con registi di rango come l’inglese Michael Winner nel thriller
Bocca da fuoco (1979) con Sophia Loren e James Coburn e come l’americano Robert Rossen facendo la parte del barista ne
Lo spaccone (1961, due Oscar) al fianco di Paul Newman. Comparsate da
guest star , camei e ruoli di rincalzo, comunque, si sprecano. Pochi sono gli ex pugili che possono vantare una parte da vero protagonista in un film. Uno di questi è l’argentino Carlos Monzon, ritenuto uno dei più grandi pugilatori di tutti i tempi: faccia da indio, braccia lunghe, mani a paletta, destro micidiale e una vita piena di guai, strappò al nostro Nino Benvenuti la corona dei medi in una fredda serata di novembre del 1970 sul ring del palazzetto dello sport di Roma vincendo per fuori combattimento. Una “lezione” ripetuta a Montecarlo sei mesi dopo con un match che sentenziò, al terzo round per getto dell’asciugamano di spugna, la fine della pur brillante carriera di Benvenuti (anch’egli attore in due film, tra cui il western di Duccio Tessari
Vivi o preferibilmente morti, al fianco di Giuliano Gemma). Passato il testimone al colombiano Rodrigo Valdèz nel 1977, Monzon lascia la boxe per dedicarsi al cinema. Gira
El macho, uno spaghetti-western di Marcello Andrei mandando all’ospedale una decina di stuntmen, picchiati sul serio durante la scazzottata prevista dal copione. La cosa si ripetè sul set di
Il conto è chiuso, di Stelvio Massi, un remake in chiave poliziottesca di
Per qualche dollaro in più, omaggio del regista marchigiano al suo maestro Sergio Leone. «Monzon però, a differenza di altri suoi colleghi che venivano dal pugilato, sapeva stare sulla scena e seguiva con attenzione le direttive di papà – racconta Danilo Massi, figlio e aiuto regista di Stelvio – riuscendo persino a stuzzicare, improvvisando, il suo avversario sul set, il commissario interpretato da Luc Merenda». L’unica pecca fu, anche stavolta, il suo pugno veloce e inarrestabile. «Non era capace di fermarsi in tempo e anziché sfiorare il volto delle comparse che avrebbe dovuto menare per finta, le stendeva davvero» ricorda Massi junior. Sarà perché il sacro fuoco del pugilato è destinato, per gente come lui, a rimanere sempre acceso... Interminabile è la lista dei boxeur italiani che fecero del cinema il loro secondo mestiere: da Tiberio Mitri (ruoli da coprotagonista in varie commediole e una trentina di apparizioni tra cui quella ne
La grande guerra di Monicelli e nel kolossal biblico
Ben Hur di Wyler) ad Enzo Fiermonte (circa 50 film, tra cui la parte dell’allenatore di Simone Parondi-Renato Salvatori in
Rocco e i suoi fratelli di Visconti), da Erminio Spalla (il barbone di periferia di
Miracolo a Milano diretto da De Sica) al caratterista Ennio Antonelli, un corpo da simpatico tracagnotto e un volto rotondo dal naso schiacciato che abbiamo visto spesso in piccoli ruoli “romaneschi” nelle pellicole fantozziane e in un centinaio di altri film, dalla commedia all’italiana al trash più trash degli anni ’70 e ’80.Nel novero degli attori boxeur va menzionato, infine, pure Mickey Rourke, il
Francesco di Liliana Cavani che prima di diventare attore professionista (ma anche sceneggiatore) era stato una promessa del pugilato americano: frequentò la palestra della Quinta Strada a Miami Beach, fece da sparring partner a Luis Elfeo Rodriguez, campione del mondo dei pesi welter e sul ring vinse 20 incontri (di cui 17 per “Ko”) perdendone soltanto quattro. Ma rimase ferito al volto e decise di... cambiare aria.