sabato 7 maggio 2016
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Un attacco duro, senza risparmio di colpi, dai toni apocalittici e millenaristici. Antonio Socci ( La profezia finale. Lettera a papa Francesco sulla Chiesa in tempo di guerra, Rizzoli, 231 pagine, 18,00 euro) prima prepara la graticola, poi ci piazza sopra il Papa girandocelo e rigirandocelo più volte, fino a carbonizzarlo. Nessuna esclusione di colpi e d’altronde chi negli ultimi due anni è incappato nelle sciabolate dell’autore di Non è Francesconon proverà nessuna sorpresa, anzi tutto ampiamente previsto. La graticola è la gragnola di profezie, di ogni genere e tutte di ardua e mutevole decifrazione, messe in fila mescolando Fatima con Malachia, Anna Katharina Emmerich con il brasiliano Pedro Régis, quello dei «nemici arriveranno dalla via Appia... invasione furiosa di uomini dalla grande barba... la città dei sette colli sarà distrutta... il trono di Pietro cadrà». Per Socci i segnali arrivano fin dal Cinquecento (Madre Mariana di Quito) e approdano a Civitavecchia e Kibeho (Ruanda): è il più brutto momento nella storia della Chiesa, “forse”. E il Papa che fa? Socci si rivolge a lui con una lettera, dove agli iniziali toni miti e (quasi) di devozione segue una raffica di accuse. «Per la Chiesa la situazione è spaventosa», con un Papa che sceglie la via della misericordia anziché quella della Croce, e già questa contrapposizione la dice lunga sul tono pamphlettistico del lavoro di Socci, che via via perde ogni freno. Il primo affondo è contro la Laudato si’, banalizzata in modo indegno e ridotta, da enciclica sociale dall’ampio respiro, formidabile epigono della Rerum novarum, a «enciclica sulla raccolta differenziata della spazzatura, sull’abuso dei bicchieri di plastica e dei condizionatori». Il tono è questo, quindi reggiamoci forte. Subito il machete di Socci cala sul Giubileo, definito con toni allusivi e nascondendo la mano che tira il sasso («Fra i suoi sostenitori c’è chi afferma...»: chi esattamente?) un evento dal «movente tutto politico, interno, di rafforzamento della sua immagine e del suo potere, con un anno di acclamazioni giubilari ». Il Francesco di Socci è un Papa vanesio preoccupato soprattutto della sua immagine e di piacere a tutti: «In coscienza ho dovuto prendere atto, amaramente, che lei preferisce perlopiù la via del successo mondano a quella della croce di Cristo percorsa dai suoi predecessori », che, da Pio IX in su, contrappone al pontefice argentino con citazioni chirurgiche. E ancora: il messaggio di Francesco, mitizzato più di qualsiasi star, «non solo non attrae i lontani, ma fa addirittura fuggire i vicini». Invettiva su invettiva, Socci se la prende con il motu proprio sulla nullità dei matrimoni. Bergoglio è colpevole di «annacquare e adulterare la fede», rinnegando e ribaltando il Vangelo. Ma «i contenuti del suo magistero hanno allontanato la gente dalla pratica religiosa anziché avvicinarla». Contestata è anche, e soprattutto, la povertà a cui Francesco tanto si appella: «La povertà evangelica è tutt’altra cosa da quella che propugna lei, anche per la Chiesa». I poveri, reclama Socci, sono i pii e i giusti, gli uomini fedeli alla legge di Dio. E – citando Madre Teresa – «la prima povertà dei popoli è non conoscere Cristo». Socci dice di parlare a nome di quella porzione di popolo cattolico trascurato, dimenticato, bacchettato da un Papa che avrebbe i media ai suoi piedi. Che la sua requisitoria antipapale sia pubblicata dal più grosso editore italiano, che gli garantirà amplissima visibilità nelle librerie e financo nei supermercati, non pare turbarlo. La lezione di cattolicità al Papa è servita in tavola. Farà godere i suoi tifosi e rabbrividire tutti gli altri. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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