domenica 27 marzo 2016
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«La testimonianza di Gesù sino alla morte, il suo 'martirio', è un martirio d’amore, amore per l’uomo, per tutti gli uomini, anche di ladri, assassini, carnefici… Il martirio include il perdono». Così diceva Christian de Chergé, priore del monastero di Tibhirine, in Algeria, nell’omelia del giovedì santo del marzo 1994. Due anni dopo, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 – esattamente vent’anni fa – lui, insieme ad altri sei confratelli, veniva rapito e successivamente ucciso nella strage più terribile che colpì la Chiesa d’Algeria negli anni di sangue del terrorismo islamista. Oggi questa Chiesa, ancora profondamente segnata da quegli eventi, ma anche capace di ripensarsi nel solco lasciato dai martiri, ricorda non solo i sette monaci trappisti, ma anche gli altri 12 fratelli e sorelle uccisi in quegli anni: «19 vite donate, che si mescolano a quelle di moltissimi algerini uccisi durante gli anni bui della guerra civile». Ma anche a quella del cardinal Duval, che «ha emesso il suo ultimo respiro il giorno in cui ha appreso della morte dei nostri fratelli monaci, accompagnandoli così sino alla fine». Perché ricordare? I vescovi del Paese si interrogano: «Nella tradizione biblica, fare memoria non è uno sguardo rivolto al passato, ma è la celebrazione di una grazia, un dono che dura nel tempo, in seguito a un evento felice o doloroso. Il martirio dei nostri fratelli e sorelle resta una chiamata anche per le nostre vite di oggi». Lo sa bene padre Jean Marie Lassausse, che da 15 anni garantisce una presenza di lavoro, accoglienza e convivialità nel monastero. Una presenza a lungo solitaria, ma che ha permesso a Tibhirine di rimanere un luogo-simbolo non solo per la Chiesa d’Algeria, ma anche per la popolazione del posto, interamente musulmana. Popolazione che, a vent’anni dalla drammatica scomparsa dei monaci, continua a mantenere viva, pure essa, la memoria di questa testimonianza straordinaria di 'oranti' in mezzo ad altri 'oranti'. «In questi giorni del Triduo pasquale – riflette padre Jean – così pregnanti per noi cristiani, ricordiamo con particolare intensità il sacrificio dei sette fratelli trappisti di Tibhirine. Senza grandi celebrazioni, ma nella preghiera e nel silenzio, e anche nelle relazioni di amicizia consolidate con i nostri vicini musulmani, che non smettono di venire a raccogliersi sulle tombe dei fratelli». «Hanno donato la loro vita per fedeltà al Vangelo – ricordano i vescovi – in nome del quale avevano scelto di fare un’alleanza con il popolo con cui hanno condiviso la loro esistenza. Nel momento del pericolo, hanno scelto di restare perché – dicevano – non si lasciano gli amici, i fratelli e le sorelle quando sono in difficoltà. La fratellanza attraversa le barriere della religione e dell’appartenenza a un Paese. I confini della Chiesa sono quelli della carità che non ha frontiere». Questo legame che continua a Tibhirine come altrove e questa presenza di Chiesa discreta ma significativa, raccontano oggi di una storia che continua. Di una morte che ha saputo dare origine a nuova vita. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il successore padre Lassausse: «I vicini musulmani non smettono di venire a pregare sulle loro tombe» Padre Lassausse
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