giovedì 29 gennaio 2009
Trent’anni fa in Iran nasceva la Repubblica islamica. Oggi la speranza di democrazia viene soprattutto dalla Rete. Parla l’esperto Daemi «La gente è alle prese con la crisi economica e cerca la libertà nel privato, ma così la dimensione pubblica è lasciata ai fanatici e ai radicali».
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Era il primo aprile 1979 quan­do in Iran l’ajatollah Kho­meini proclamava la Repub­blica islamica. A trent’anni dalla rivoluzione, l’unico paese al mon­do in cui il cui potere politico è nella mani del clero sciita conti­nua a digrignare i denti, a minac­ciare l’Occidente, e non ricono­scere lo Stato d’Israele, a repri­mere le libertà civili e religiose. L’Iran ha una popolazione che per il 70 per cento ha meno di 30 an­ni, e che emigra in massa ( 220mi­la giovani l’anno), anche perché il tasso di disoccupazione è al 18 per cento. Ma possiede il 9 per cento delle riserve mondiali di pe­trolio e il 15 per cento delle riser­ve di gas. È un Paese sempre più indispensabile all’Occidente, ma sempre più pericoloso. Il potere degli sciiti nel mondo islamico cresce: i rapporti di forza con i sunniti si sono ribaltati in Iraq, Hezbollah ( il Partito di Dio) si rafforza, e all’interno dello stes­so Iran il loro peso politico è sem­pre più evidente: radicali, popu-­listi, sostenitori dello stato teo­cratico sono determinati a espor­tare la rivoluzione khomeinista all’interno dell’islam. Ne parla ampiamente Siavush Randjbar Daemi, ricercatore presso l’Uni­versità di Londra e giornalista, nel suo libro L’eredità dell’imam. La strategia rivoluzionaria degli scii­ti da Mussa Sadr a Ahmadinejad, in uscita per Sperling & Kupfer. Ma perché questa continua poli­tica di aggressioni verbali e mi­nacce? «Lo scopo è quello di aumentare il patriottismo della popolazione. Bisogna tenere conto del fatto che in Iran si respira un clima pre­elettorale: si andrà a votare nella primavera di quest’anno, proba­bilmente». Attualmente esiste un’opposi­zione, o almeno un dissenso? «Lo strumento attraverso cui la popolazione esprime il proprio dissenso è il non voto. Quindi Ah­madinejad è impegnato ad assi­curarsi il sostegno di quella par­te della popolazione che invece parteciperà: quel terzo o forse più di fedelissimi della Repubblica i­slamica attestati su posizioni ra­dicali e di sfida all’Occidente. Si tratta soprattutto di una consi­stente parte della popolazione ru­rale che non ha avuto contatti con l’Occidente ed è stata educata con una certa xenofobia». C’è in Iran una società civile ar­ticolata, organizzata e libera di esprimersi? «A differenza di altri Paesi del Medio Oriente, l’Iran ha una società civile che vanta una lunga storia e che, nell’ultimo decennio, ha potuto usufruire di strumenti tecnologici con cui controbattere al con­trollo rigido dello Stato sui media. La radio e la tele­visione dell’Iran, già pri­ma della rivoluzione islamica, so­no sempre stati sotto il controllo ferreo dello Stato e, dopo un pe­riodo di relativa libertà, ora an­che i giornalisti della stampa riformista devono agire con e­strema cautela. Ma in Internet, per esempio, sono molto impor­tanti i blog di alcuni giornalisti in­dipendenti, che pubblicano vere e proprie inchieste. L’anno scor­so c’è stato un caso di lapidazio­ne in un piccolo villaggio del cen­tro del paese, e una giornalista si è recata sul posto, ha scattato fo­to e le ha pubblicate sul blog, ar­rivando dove nessun giornale a­veva potuto o voluto arrivare» . Però questa società civile non vota. «È spaccata al proprio interno, ma comunque non penso che sarà la società civile a determinare il ri­sultato elettorale. C’è un senti­mento generale di apatia che ha invaso le classi medie, che non si sentono più rappresentate » . Ma il nucleare la gente lo vuole? Ne parla? « Direi di no. La gente è alle prese con una congiuntura economica piuttosto negativa; si preoccupa di arrivare a fine mese e non si ap­passiona ad altri problemi. Ge­neralmente, comunque, il nu­cleare viene visto come via d’u­scita ad un problema molto serio: la carenza di energia elettrica, che ha costretto il governo a tagliare la fornitura a interi quartieri del­la capitale – uffici pubblici com­presi – in maniera periodica e si­stematica». Il 70% della popolazione è costi­tuita da giovani. Come vivono?«È una vita piena di incertezze. I giovani delle classi medie vengo­no incanalati presto a creare i pre­supposti per l’emigrazione. Dal­l’adolescenza si studia per essere ammessi in una prestigiosa uni­versità, conseguire una laurea e partire. Nello stesso tempo, mol­ti entrano precocemente in con­tatto con la cultura occidentale, attraverso internet o le parabole satellitari, molto diffuse anche se in teoria proibite. Si creano così innesti sorprendenti: per esem­pio, è molto diffuso il rap, sia pu­re cantato in persiano». Tutto questo vuol dire anche lai­cizzazione? «In un certo senso sì, ma senza sbocchi politici. Non porta cioè all’adozione di una visione poli­tica laica, piuttosto si traduce in apatia. Un ragazzo, recentemen­te, mi ha raccontato che con i suoi amici si è dato una regola: chi vo­ta è fuori dal gruppo. Da parte lo­ro, le autorità hanno deciso di la­sciar fare. Ogni tanto sequestrano qualche antenna satellitare op­pure la polizia morale ferma qual­che ragazza che indossa un fou­lard troppo vivace o è troppo truc­cata. Sono misure che hanno lo scopo di far tacere i gruppi più ra­dicali, ma sono abbastanza occa­sionali. A Teheran le ragazze con­tinuano a vestire all’occidentale o quasi, ma invece di protestare per il chador si segnalano via sms le piazze in cui è appostata la po­lizia morale e la evitano». Insomma, si cerca la libertà nel privato, senza farne una que­stione politica. «Sì. Poi succede che nella Tehe­ran bene si fanno festini in cui si abusa seriamente di droga e al­col. Un’espressione di rigetto del­lo status quo è data anche dalla tossicodipendenza. Si stima che l’Iran abbia 3- 4 milioni di tossi­codipendenti, anche perché dai confini con l’Afghanistan e con il Pakistan la droga entra in grandi quantità. Recentemente lo Stato ha distribuito gratuitamente si­ringhe ' sicure' per bloccare l’e­norme diffusione dell’Aids, ma fi­nora non è riuscito a dare una ri­sposta al disagio di cui la grande diffusione della droga è espres­sione».
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