venerdì 29 aprile 2016
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Il già diffuso scetticismo nei confronti di un’idea di progresso sempre buono e sempre necessario, trovò un’ulteriore, drammatica conferma il 26 aprile 1986, quando nella città di Chernobyl si verificò una spaventosa esplosione nella locale centrale nucleare. Fu il più grave incidente industriale mai avvenuto e provocò una nube radioattiva così enorme da contaminare non solo un vasto territorio dell’allora Unione Sovietica, fra Ucraina e Bielorussia, ma si espanse in un’ampia e non chiaramente definita zona d’Europa: dalla Germania ai Balcani al nordest d’Italia. L’entità reale del disastro resta a tutt’oggi imprecisata e i suoi effetti a lungo termine sono incalcolabili, o meglio non calcolati, o più precisamente non resi noti. Basti pensare che il numero dei morti ufficialmente comunicato è di novemila, mentre altre stime arrivano a calcolarne circa centomila. Ricordo bene quel momento. Per fortuna non soffro di depressioni, e quello era uno dei periodo più felici della mia vita: ma una nuvola di ossessivo sconforto gravò per diversi mesi su di me come su tutti. Continuai a lungo a scrivere appunti sul mio taccuino, finché quell’insieme informe di neri pensieri diede forma a un saggio di cui mi resta in mente soprattutto il titolo: Carne da progresso. Avevo letto da tempo le Tesi di filosofia della storia di Benjamin, Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno, e più recentemente gli ultimi scritti di Pasolini e i poemi di Enzensberger: tutti dicevano o suggerivano che il progresso produce catastrofi nuove, l’Illuminismo crea dogmi e oscurantismi di altro tipo, gli eroi del progresso sono spesso dei paranoici e lo sviluppo economico planetario non garantisce il miglioramento del genere umano. Eppure dovevo di nuovo constatare che ci si appassionava (d’accordo con Marx e con il capitalismo) più a trasformare in continuazione il mondo che ha capirlo, più ad accelerare il cosiddetto progresso che a rallentare i regressi a cui la smania di progredire ci costringe. Pur di avere posti di lavoro, non ci chiediamo di che diavolo di lavoro si tratta, né giudichiamo che razza di merci produce. Per noi, a quanto pare, non sono temibili le catastrofi procurate dalla macchina produttiva: la catastrofe che si teme di più è che quella macchina rallenti la produzione. © RIPRODUZIONE RISERVATA minima
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