sabato 14 febbraio 2009
L’urbanista francese Paul Virilio: «Non sono contro le nuove tecnologie. Ma ogni evoluzione è accompagnata da incidenti» «Auspico un’università, un’intelligenza collettiva del disastro, dei danni del progresso, contro le ridicole profezie catastrofiste».
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«Non si dovrebbe so­stituire la contem­plazione del cielo con la contemplazione degli schermi». A prima vista, può sor­prendere che a lanciare sottovoce questo monito vagamente dante­sco sia Paul Virilio, urbanista e da decenni maître à penser fra i più rispettati d’Oltralpe. Ma l’altro vol­to del 'pensatore della velocità', coi suoi vezzi e le sue sorprendenti trouvaille lessicali da raffinato in­tellettuale, è il Virilio cristiano, preoccupato dell’umana condi­zione ben oltre i recinti della pura speculazione d’accademia. La fondazione Cartier di Parigi ospita attualmente l’esposizione multi­mediale 'Terre natale', in cui il fi­losofo 'dialoga' col cineasta Ray­mond Depardon sui tema della sedentarietà e del nomadismo ai tempi della globalizzazione. Professore, la crisi attuale sarebbe dovuta alla capacità dell’econo­mia finanziaria, 'virtuale', di contaminare e travolgere anche quella 'reale'. Si può davvero di­venire vittime della virtualità? «Lavoro da trent’anni sulla velo­cità, ovvero sull’accelerazione del­la realtà. La questione della virtua­lità riguarda il passaggio alla velo­cità delle onde elettromagnetiche. Tale passaggio ha condizionato il nostro rapporto con l’economia, con la strategia e persino le nostre abitudini, attraverso ciò che si suole chiamare 'telerealtà'. Esiste un grande pericolo di fronte all’e­mersione di un sesto continente, il cyberspazio. Assistiamo a un feno­meno di colonizzazione della realtà contrassegnato da una vo­lontà di potenza, di controllo e di sostituzione delle origini simile a quella di altre colonizzazioni del passato. Personalmente, non sono contro le nuove tecnologie. Ma o­gni evoluzione del progresso è ac­compagnata da incidenti di gran­de ampiezza, come sosteneva Hannah Arendt». Lei è anche urbanista. Pure la no­stra idea di città sta cambiando?«La città moderna è figlia della prospettiva rinascimentale, di una visione geometrica del mondo. Ma oggi la città è posta dinanzi al­la prospettiva del tempo reale, ov­vero l’immediatezza e l’ubiquità. In un certo senso, gli assi urbani rettilinei sono sempre più sostitui­ti dagli schermi, divenuti nuove piazze pubbliche. Per i cittadini cambia dunque il rapporto verso la realtà. Ancor più che la città in­tesa architettonicamente, ad esse­re investita è la città come entità politica. Mi chiedo se esisterà an­cora una sedentarietà urbana». Cosa intende? «I veri sedentari paiono oggi colo­ro che su un treno, così come in a­scensore o in aereo, riescono a re­stare sempre connessi. In fondo, si sentono sempre a casa loro. Men­tre chi resta escluso dalle tecnolo­gie di comunicazione appare sem­pre più come un nomade, fuori posto in ogni angolo del pianeta». Analizzando la globalizzazione, lei ha sottolineato l’attualità del mito della Torre di Babele. Per­ché? «Oggi, la Terra si rivela troppo pic­cola per un certo tipo di progres­so, quello legato a un profitto im­mediato, a corta scadenza. La Ter­ra ha dei limiti geofisici, i limiti della biosfera, come ci ricorda l’e­cologia. L’istantaneità e le inter­connessioni delle borse, della grande finanza mondiale, rischia­no così di provocare crolli babelici e l’attuale crisi finanziaria sta evi­denziando ciò. Ma al contempo, il mondo non è affatto troppo pic­colo per i progetti umani. In que­sto senso, sono pieno di speranza e non credo a nessuna fine della storia. Credo semplicemente ai li­miti della biosfera». Credere per lei è un verbo forte. Cosa porta la sua fede di cristiano a questa riflessione sulla condi­zione contemporanea? «Una speranza che sormonta qualsiasi predizione. I limiti della geografia non sono la fine del mondo. Viviamo in un momento cruciale che dovrebbe veder na­scere una nuova università, come quelle che all’epoca sorsero a Bo­logna o a Parigi. Intendo, cioè, una nuova intelligenza collettiva di fronte a questi limiti della materia, della nostra territorialità, a que­st’unica terra. Auspico la nascita di ciò che ho definito un’università del disastro, di un’intelligenza col­lettiva del disastro, ovvero dei danni del progresso. Si tratta esat­tamente di una forma di cono­scenza capace di opporsi a tutte le profezie catastrofiste o apocalitti­che, che personalmente trovo ridi­cole». Cosa vuol dire per lei, nel mondo di oggi, essere cattolico? «Significa essere universale, dun­que aver già pensato la globalità attraverso Cristo e l’unicità della fede in Dio. In un certo senso, la parola cattolico rivela oggi un in­teresse particolare. Finora, il ter­mine universale è stato spesso in­teso nel senso che gli è stato dato dall’astrofisica. Ma, come cristia­no, mi oppongo a coloro che im­maginano come avvenire poten­ziale per l’umanità la scoperta di un fantomatico pianeta abitabile, un pianeta surrogato da sostituire alla Terra divenuta inabitabile. An­cora una volta, vi è in ciò uno spi­rito tipicamente colonialista, que­sta volta in chiave astronautica, paragonabile a quello del cyber­spazio di cui parlavo». Lei si definisce come un contem­plativo spesso disturbato dalla nostra epoca tanto rumorosa. La contemplazione ha un avvenire? «Certo. Si è molto parlato delle ri­voluzioni e dei rivoluzionari. Ma forse non si è parlato abbastanza della Rivelazione. Quando vengo accusato di pessimismo, rispondo con questa sorta di gioco di paro­le: no, non sono pessimista, sono 'rivelazionario'. La crisi ecologica è una rivelazione, non una rivolu­zione. Il mondo è semplicemente troppo piccolo per alcune delle nostre follie».
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