martedì 8 settembre 2020
Gli stadi chiusi al tifo sono uno scenario che non appartiene al rituale dello sport, men che mai al calcio: festa popolare che non può prescindere dal popolo
La Curva del contagio tra Covid e ultrà

Matteo Bazzi/Ansa

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Uno avrebbe pensato che il lockdown, e la chiusura degli stadi, avrebbe potuto segnare la fine della sottocultura più longeva e malfamata d’Italia, il movimento ultrà. Nei 52 anni della loro storia non c’è mai stato un divieto così totale, anche se ci sono state tante diffide negli anni, escludendo l’entrata allo stadio ai singoli ultrà considerati pericolosi. La loro ragione d’essere è innegabilmente sparita: fare l’ultrà adesso è come ballare senza musica. Invece, in questi mesi strani, qualcosa di molto interessante sta succedendo. All’improvviso, il pubblico si trova d’accordo con una parte centrale della filosofia ultrà: che uno sport popolare non può fare a meno del popolo. Fino adesso, l’importanza del pubblico per lo spettacolo sportivo sembrava un cliché: dopo tutto, il botteghino (la vendita dei biglietti) è quasi irrilevante per le società, almeno quelle di Serie A che percepiscono circa 811 milioni di euro dalla televisione. Sembrava che a nessuno sarebbero mancati gli estremisti delle curve. Ma dopo aver subito mesi di calcio giocato con urla finte fornite dalle emittenti televisive, in stadi asettici e freddi, tutti ci siamo accorti che il cliché – come spesso accade – era vero: senza la folla e la passione, il calcio perde la sua ragione d’essere.

Far giocare delle élite senza il popolo era come pagare un mega- deejay per una discoteca vuota. Si sgretolava il legame metafisco del calcio: il campione lo è solo perché rappresenta qualcosa e lotta per qualcuno (il senso originario di “campione”): se rappresenta solo se stesso, non è più campione. «È una misera simulacrumdel calcio » scrisse Walter Cavalcante sulla fanzine cosentina, Voce Ribelle, qualche mese fa. Se non siamo negli stadi, dicono spesso gli ultrà, ci troverete sulla strada. E intanto che erano esclusi dalle loro curve, tanti gruppi ultrà si sono dati alla beneficenza. A Bari, la Curva nord ha raccolto più di 14.000 euro in cinque giorni, divisi tra 600 famiglie bisognose. A No- cera, il Nuvkrinum Curva Sud – tramite il Banco di Nocerinità – ha distribuito mascherine, medicine e cibo insieme alla Protezione Civile. A Parma i Boys distribuiscono pasti e donano i rimborsi per gli abbonamenti all’ospedale. Sono pochi gli ultrà che non si sono trasformati in assistenti sociali alternativi in questi mesi difficili. Come scrivevano i Fedayn Bronx 1981 di Caserta recentemente: «A prescindere dall’amore per la nostra gloriosa maglia, l’amore verso la nostra città e i nostri cittadini è superiore a tutto». E quindi gli ultrà si sono trovati con una reputazione lucidata. Si è sfatato un po’ il mito che – nelle parole di uno di loro – abbiamo «solo l’obiettivo di creare subbugli in occasione di manifestazioni sportive». Questo accresciuto lustro si è visto a Napoli, in agosto, quando centinaia di gruppi ultrà si sono riuniti – addirittura nella Sala dei Baroni del Maschio Angioino – insieme ad alti rappresentanti dello Stato (tra cui il vice ministro dell’Interno Vito Crimi, il sottosegretario al Ministero dell’Interno Carlo Sibilia).

Si è discusso della deriva del calcio italiano e gli ultrà, anziché apparire come il solito capro espiatorio, erano interlocutori eloquenti. Ogni tanto c’è un po’ di tensione tra gli ultrà e i cosiddetti tifosi normali: i primi sono considerati spesso teppisti violenti e quest’ultimi dipinti come tiepidi borghesi. Ma adesso i tifosi “normali” capiscono, per la prima volta, una realtà contro la quale gli ultrà hanno lottato per anni: l’esclusione. Vari striscioni hanno cercato di rassodare questa nuova alleanza tra esclusi: «O tutti dentro o nessuno» diceva uno. «Stadio chiuso e tifo virtuale», diceva un altro recente a Salerno, «questo non è più uno sport popolare». Nonostante la stravoglia di inclusione, e della famigerata “presenza”, tanti ultrà si opponevano alla ripresa del campionato. Sembra paradossale che gli adoratori potrebbero non volere assistere al loro oggetto dell’adorazione, ma spesso è così: dopo Heysel, dopo le bombe in Spagna, dopo la morte di Gabriele Sandri, dopo la morte (rivelata fittizia) del bambino nel derby di Roma e dopo il crollo del ponte Morandi… continuare a giocare sembrava un sacrilegio agli ultrà. Con tutti i lutti in questi mesi, e con l’esclusione certa dei tifosi, la stramaggioranza degli ultrà non voleva che il calcio ricominciasse. Il fatto che i vari campionati avessero ripreso era dovuto, secondo gli ultrà, ad un motivo puramente finanziario: in un dettagliato documento scritto dagli Ultras Tito (della Sampdoria, ma sottoscritto da tantissimi altri gruppi), si evidenziava che un sesto pagamento di 162 milioni di euro dagli emittenti televisivi era a rischio se non si andava avanti.

Qui, in cifre crude, c’era la prova di quello che dicono da decenni: che il calcio moderno e sradicato teneva molto di più ai soldi televisivi che ai propri seguaci e fedeli. E una pietra miliare della filosofia ultrà è che loro sono il dodicesimo uomo in campo, che il loro rauco sostegno riesce, quasi misticamente, a cambiare risultati. Anche questo sembrava, come minimo, retorica ottimista. Ma guardando i risultati di alcune squadre con gli stadi chiusi, si intuiva che forse c’era un pizzico di verità in ciò: la caduta della Lazio – che fino allora godeva di un’entusiastica simbiosi con i suoi tifosi – era palese. C’erano, certo, tanti altri motivi per andamenti sportivi diversi con stadi chiusi, ma l’effetto dell’assenza di migliaia di voci fanatiche – sui giocatori, sull’arbitro, sui commentatori e gli spettatori televisivi – non era più in discussione. Come spesso accade quando uno si prende una pausa, forzata o no, c’è stato un esame di coscienza tra le curve in questi mesi. Una delle teste più sagge del movimento, Francesco Conforti, ha scritto recentemente un breve riassunto della deriva non soltanto del calcio moderno, ma anche del movimento ultrà: «C’è chi si è infiltrato per i propri tornaconti personali e tiene in ostaggio intere curve con metodi mafiosi, spaccio di cocaina, business dei biglietti e merchandising». Come tanti, lui spera in un ritorno «all’allegria e al divertimento, un ideale di vita», invece di «stupido espressionismo» e «questo clima di odio». Quello che è certo, come dice Dopone, di Catanzaro, è che «bisognerà quantomeno ripensare il concetto stesso di mondo ultrà». Per una sottocultura basata sulla presenza e sugli assembramenti, la peste Covid presenta parecchie difficoltà ma anche, stranamente, delle opportunità.

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