domenica 7 febbraio 2010
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A cinque giorni dall’inizio delle Olimpiadi invernali di Vancouver abbiamo un appello da fare alla nazione: ridateci il curling. In Canada, quei magnifici quattro ragazzi e ragazze della squadra azzurra, muniti di broom (scope) e di pesanti stone (pietre da circa venti chili) da far scivolare sul ghiaccio facendo sweeping, ovvero scopettare, come una provetta casalinga, non ci saranno. «Non ci siamo qualificati. A Torino 2006 c’eravamo in quanto l’Italia era il Paese ospitante dei Giochi», precisa candido, Joël Retornaz, lo skip, il capitano della Nazionale di curling. La mente, l’occhialino intellettuale della squadra di questo esotico e originalissimo sport che ci aveva letteralmente stregati, inducendo tanti a pensare che fosse stata un’invenzione dell’ultim’ora del genio creativo italiano. Beata ignoranza. Il curling l’anno prossimo festeggia i cinquecento anni di vita, mentre nell’immaginario di gran parte del pubblico nostrano, nonostante sia disciplina olimpica dal 1924, è solo alla quarta stagione dalla sua catartica apparizione popolare, avvenuta al Palaghiaccio di Pinerolo. Le origini di questo gioco, mix di bocce e biliardo su ghiaccio – «Ma per tatticismo più vicino agli scacchi», dice Retornaz –, affondano infatti al 1511, come testimoniano le cosiddette Stirling Stones che attestano le prime sfide calde, sui laghetti ghiacciati della Scozia. Ma in realtà, forse le radici del curling sono da ricercare altrove, dato che in due dipinti di Pieter Bruegel il Vecchio, sempre del ’500, si vedono dei contadini olandesi che si divertono a lanciare pietre su una superficie di ghiaccio. Il primo rink – il rettangolo, simile a quello dei pattinatori, in cui si gioca –, dunque, potrebbe essere stato olandese e non scozzese. Ma dalla Scozia hanno difeso con i denti fino ai giorni nostri, il copyright delle stone. Quelle per le gare ufficiali fino a non molto tempo fa venivano prodotte quasi esclusivamente con il pregiatissimo granito blu estratto nella miniera dell’isola di Ailsa Craig. Le stone sono delle strane sfere a forma di pentola a pressione, con tanto di manico, che i giocatori di curling non si portano certo da casa – come si fa con il pallone da calcio – e che hanno pure un discreto valore commerciale. «Per un set da sedici stone ci volevano circa cinquanta milioni di lire, adesso siamo sui cinquemila euro», puntualizza Franco Zumofen, vicepresidente della Federazione Sport del ghiaccio e responsabile della sezione curling Italia. Uno sport semisconosciuto, dicevamo, prima di Torino 2006 e che da noi, grazie al volano dei Giochi piemontesi, ha visto crescere sensibilmente il numero degli appassionati, degli impianti e soprattutto dei praticanti che si confrontano all’interno di un campionato nazionale con trentasei società ripartite in serie A (otto), B (sedici, divise in gironi Est e Ovest) e C (dodici). «Abbiamo quasi triplicato i tesserati – spiega Zumofen –. Prima di Torino ne contavamo circa trecentocinquanta, ora sono novecento. Fino a sette-otto anni fa da noi si giocava solo su campi da hockey, non proprio adatti per via del ghiaccio che deve essere liscio e trattato; ora invece ci sono impianti esclusivamente per il curling e stanno nascendo realtà nuove come quella di Ancona e di Mentana, a dimostrazione che questa disciplina non ha più una connotazione geografica esclusivamente radicata al Nord». Numeri certo irrisori rispetto al Canada, in cui il curling con un milione e duecentocinquantamila tesserati se la gioca alla pari con l’hockey e dove uno skip come il nostro Joël a fine stagione con il montepremi del campionato nazionale arriva a guadagnare cifre dorate, pari a quelle di un golfista di primo piano. «Noi rispetto al Canada siamo ancora in una fase di dilettantismo puro – dice Retornaz –. Io e i miei compagni di squadra durante la settimana ci alleniamo dalle 22 a mezzanotte, subito dopo aver staccato dal lavoro e utilizziamo i week-end per andare a fare le nostre "tappe" (quindici circa a stagione), le sfide di campionato e quelle internazionali. Ma nel mio paese, a Cembra – millecinquecento abitanti, quasi tutti giocano –, abbiamo costituito una squadra, il Trentino Curling Team Retornaz, che ha un progetto e un’organizzazione (preparatore atletico, fisioterapista e addetto stampa) per puntare in un futuro non molto lontano a una dimensione assolutamente professionistica». Come tutti gli "sport poveri" mancano gli sponsor e una volta spenti i riflettori olimpici anche la giusta visibilità mediatica. «È incredibile se ripenso ai Giochi di Torino, quando per le sfide vinte con il Canada e gli Usa, rispettivamente poi oro e bronzo, al Palaghiaccio di Pinerolo c’erano fissi tremila spettatori e per la telecronaca Rai, si sintonizzarono in cinque milioni e mezzo di telespettatori, più dello sci, gli stessi della sfortunata prova di Isolde Kostner», ricorda Zumofen. Il curling già alla fine dell’800 in Canada era molto praticato, anche dalle donne. La miglior squadra rosa attualmente è quella cinese che all’ultimo campionato del mondo del 2009 ha tenuto incollati cinquanta milioni di telespettatori per assistere al loro trionfo nella finale trasmessa in diretta dalla tv di Pechino. E anche in Italia funziona il movimento femminile del curling, che è riuscito a strappare il passdelle qualificazioni ai Mondiali anche quando non si giocavano in casa. Qualificazione che alla squadra maschile invece è sempre sfumata di un soffio, dai Giochi di Nagano ’88 a Salt Lake City 2002. La chance per un riscatto degli uomini dal broom in mano si presenta però subito il prossimo aprile, con il primo Mondiale di curling organizzato a Cortina d’Ampezzo. Un appuntamento per riportare Retornaz e compagni sotto i riflettori, da protagonisti non più anonimi, senza più soltanto il commento satirico di sottofondo della Gialappa’s o l’espediente della comparsata in un episodio della prossima serie dei Cesaroni che, annoiati dal calcio, vengono rapiti dal fascino discreto del curling. «Che si faccia ironia o meno, l’importante è che di questo sport se ne parli», dice lo skipazzurro. Spazio doveroso a una disciplina democratica, davvero aperta a tutti. «In Canada e in tutti i Paesi del Nord Europa giocano dagli otto agli ottant’anni – sottolinea Zumofen –. Alle Universiadi, fuori concorso, era presente anche la squadra del Camerun. Questo a testimonianza della grande presa universale che comincia ad avere». Uno sport democratico e in cui regna sovrano il fair-play, con un "terzo tempo" quasi superiore a quello del rugby. «Prima di ogni sfida si augura "buon gioco" e alla fine si ringraziano gli avversari della "bella partita" – dice fiero Retornaz –. Chi vince poi paga sempre da bere alla squadra perdente». Gesti bianchi da gentleman scopettatori, attenti al sociale e alla disabilità. Ai Giochi paralimpici di Torino ha fatto il suo debutto ufficiale il curling in carrozzina – al quale manca solo la fase dello scopettamento, ma per il resto è identico –, che in Europa è praticato da tempo in Norvegia, Gran Bretagna e Svizzera e ora piano piano si sta insediando anche da noi. Insomma il curling azzurro è fuori dai Giochi, ma è più in salute che mai e presente in ogni angolo del pianeta, in cui ci sia almeno un rink su cui sfidarsi.A preoccuparlo, anzi a preoccuparci, c’è solo un’antica leggenda scozzese che vuole che quando nella miniera dell’isola di Ails Craig verrà estratta l’ultima pietra di granito blu per fare una stone, allora quello sarà il giorno della fine del mondo. Anche per questo, lunga vita al curling.
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