venerdì 29 novembre 2013
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Al dialogo non si rinuncia, l’importante è accordarsi sull’identità degli interlocutori. «Non trovo soddisfacente la definizione di “non credenti” – dice il filosofo Umberto Curi –, perché, contrapponendosi in negativo a quella di “credenti”, impedisce la pariteticità fra le due parti. Se vogliamo dialogare, non possiamo insistere su qualcosa che manca. Al contrario, dobbiamo prendere le mosse da ciò che ci accomuna, e cioè l’esigenza insopprimibile della ricerca». Nei suoi libri più recenti Curi ha testimoniato l’urgenza dell’interrogazione su temi fondamentali come il dolore (Meglio non essere nati, 2008), la morte (Via di qua, 2011) e Lapparire del bello (il volume, fresco di stampa, è pubblicato come i precedenti da Bollati Boringhieri). «Il paradosso – aggiunge – è che ogni ricerca filosofica è destinata ad approdare a quello che sembrerebbe il punto di partenza: il riconoscimento del limite insito nella condizione umana, il sentimento di incompiutezza che ci obbliga a interrogarci sul nostro stare nel mondo. Come avvertiva già Platone, agli uomini non compete la sofia, ossia la sapienza, ma la philosofia, la ricerca della sapienza».Papa Francesco è un cercatore?«È un uomo dotato della straordinaria capacità di combinare tra loro la necessità di un forte rinnovamento all’interno della Chiesa e il recupero del messaggio evangelico nella sua genuinità originaria. Si tratta di un’apertura al futuro che fa leva sulla profezia e non si rinchiude, come talvolta è accaduto, nel mero rispetto di una regola morale. Particolarmente rivelatrice mi pare l’insistenza sul valore della misericordia, che del resto è l’asse portante del Discorso della Montagna. Riferita a Dio, la misericordia indica sempre un’eccedenza, è il superamento della logica per cui alla colpa corrisponde la pena, al delitto il castigo. Con la misericordia entra in scena la dismisura del perdono, in quella prospettiva della sovrabbondanza su cui Paolo si sofferma nella Lettera ai Romani».Francesco si presenta come il Papa dell’essenziale.«Infatti, per il credente l’essenziale è questo: la fede e non la religione, mi verrebbe da dire. La stessa semplicità dei gesti e dell’eloquio di Bergoglio possono essere interpretati come un richiamo a non separarsi dall’essenza della fede, che si esprime in pienezza quando si incardina nel comandamento dell’amore: per sé, per il prossimo, addirittura per il nemico».Sì, ma in questa essenzialità c’è molta teologia, non trova?«Dobbiamo intenderci sui termini. Già dal punto etimologico, la teologia sta sul crinale di una pretesa impossibile. Il discorso (logos) su Dio (Theos) non può mai compromettere il momento originario e fondativo della fede. Molti interventi di papa Francesco mi pare che vadano per l’appunto nella direzione di una ricerca appassionata, che non riduce mai la verità a qualcosa di cui si possa rivendicare il possesso».Nessun sapere può illudersi di bastare a se stesso, dunque?«Prendiamo il caso della bellezza. Nel pensiero greco classico non è affatto una pura armonia delle forme da contemplare in modo distaccato e, per così dire, “estetico”. Questa è un’invenzione moderna, della quale ha fatto in parte giustizia Nietzsche richiamando l’importanza dell’elemento dionisiaco, irrazionale, che per gli antichi era complementare alla compostezza dell’apollineo. In senso più generale, nel pensiero greco la bellezza è sempre posta in relazione con altri valori di ordine etico e ontologico. Ed è per questa via che il bello viene a convergere con il buono e con il vero. Il recupero della genuinità originaria, così spesso invocato da papa Francesco nei suoi interventi, richiede un’analoga disponibilità ad andare al cuore di ogni questione, rinunciando alle sovrastrutture che rendono opaca la nostra esperienza».Dobbiamo guardare di più al passato, insomma?«All’origine, che non è semplicemente il passato. In Francesco colpisce l’assenza del pregiudizio antimoderno che molte volte, anche all’interno del cattolicesimo, si è accompagnato alla valorizzazione del fondamento originario. Il Papa dimostra come si possa essere veramente cristiani senza opporsi al tempo in cui si è chiamati a vivere, sfuggendo così sia al complesso di subalternità sia alla tentazione di opporsi alla modernità. Un equilibrio difficile da mantenere, ma proprio per questo tanto più necessario».
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